EXCALIBUR 131 - agosto 2021
in questo numero

Quattro donne per la libertà

La toponomastica di Cagliari rende onore a quattro donne che senza femminismo e quote rosa seppero affermarsi col proprio coraggio e la propria intelligenza

di Antonello Angioni
<b>Caterina Segurana</b>
<b>Eleonora De Fonseca</b>
Sopra: Caterina Segurana e Eleonora De Fonseca
Sotto: Luisa Sanfelice e Colomba Antonetti
<b>Luisa Sanfelice</b>
<b>Colomba Antonetti</b>
La storiografia è stata, nel complesso, ingiusta nei confronti delle donne che hanno combattuto per la libertà, rendendo quasi invisibile la loro partecipazione alle lotte politiche intraprese nel corso di una vicenda plurisecolare. Eppure abbiamo diverse donne che hanno saputo compiere scelte coraggiose, agire in maniera indipendente e mostrare spirito d'iniziativa. Oggi è venuto il momento di dare visibilità al ruolo di queste donne, di restituire soggettività alle protagoniste di quelle lotte, sottraendo all'oblio e alle manipolazioni di parte. Una componente, quella femminile, che si intreccia indissolubilmente a quella maschile in un'unica storia.
In questa prospettiva un ruolo non secondario può avere la toponomastica, per cui riteniamo utile tracciare i profili biografici di quattro donne che hanno combattuto per la libertà alle quali il Comune di Cagliari ha dedicato altrettante strade nella Municipalità di Pirri. Si tratta di Caterina Segurana, Eleonora Fonseca, Maria Luisa Sanfelice e Colomba Antonietti.

Caterina Segurana nasce a Nizza nel 1506. Nell'agosto 1543, si distinse durante l'assedio della sua città da parte della flotta del sultano Solimano II, alleato del Re di Francia. Allora Nizza apparteneva al Ducato di Savoia, in guerra con la Francia, ed era difesa da sei compagnie di archibugieri, 300 miliziani e dalla guarnigione del Castello; inoltre tutti gli individui validi (donne e ragazzi compresi) erano scesi in campo per aiutare i militari.
L'11 agosto la città venne cinta d'assedio dai Turchi, che, dopo quattro giorni, sferrarono l'attacco finale con un fitto bombardamento dal mare che provocò un'ampia breccia nelle mura. In questo tratto, quindi, gli assedianti tentarono di sfondare ma andarono incontro a un'accanita resistenza, nonostante avessero messo in campo anche i giannizzeri, un corpo speciale famoso per il coraggio e la crudeltà.
Nel momento più critico della battaglia, allorché i Turchi avevano piantato la propria bandiera in cima alla breccia, una brutta popolana, Donna Maufaccia (letteralmente "Malfatta"), il cui vero nome era Caterina Segurana, di mestiere lavandaia, buttò giù dalle mura l'invasore turco e, dopo esseri impossessata della bandiera, indirizzò un osceno gesto di scherno ai nemici. L'episodio diede notevole coraggio ai Nizzardi, che riuscirono a respingere gli assalitori. Quindi, sull'antico bastione venne eretta una stele (tuttora esistente) in onore della Segurana, mentre nella vecchia Via Dritta, incassata nel muro, si trova ancora una palla di cannone con una scritta in nizzardo: ci ricorda che si tratta di un «Boulet tirat per la flota turca en 1543 a l'assedi de Nissa doun si destinguet Catarina Segurana l'erouina nissarda».

Altra donna interessante, alla quale è stata dedicata una strada, è Eleonora de Fonseca (all'anagrafe Leonor de Fonseca Pimentel Chaves), nata a Roma nel 1752, in Via di Ripetta, da nobile famiglia portoghese originaria di Beja nell'Alentejo. Poco dopo la sua nascita, a seguito della rottura dei rapporti diplomatici tra il Regno del Portogallo e lo Stato Pontificio, la sua famiglia si trasferì da Roma a Napoli. Qui, grazie all'aiuto di uno zio, l'abate Antonio Lopez, poté dedicarsi allo studio delle lettere e cimentarsi nella composizione di versi. Era inoltre in grado di parlare, oltre il latino e il greco, diverse lingue moderne. Pertanto, ancora in giovane età, venne ammessa all'Accademia dei Filaleti e all'Accademia dell'Arcadia.
La Fonseca ebbe quindi scambi epistolari con diversi letterati, tra cui Pietro Metastasio, e, fin dall'adolescenza, partecipò ai salotti di Gaetano Filangieri. Per i suoi meriti letterari venne ricevuta nella Corte di Ferdinando IV e ottenne un sussidio come bibliotecaria della Regina Maria Carolina d'Asburgo-Lorena. Successivamente si dedicò anche allo studio delle discipline storiche, giuridiche ed economiche. Nel 1776, appena ventiquattrenne, iniziò una corrispondenza con Voltaire. Nel 1780 venne ammessa all'Accademia Reale di Scienze e Belle Lettere e partecipò ai salotti letterari e massonici.
Tra il 1789 e il 1793 si avvicinò alle ideologie della Francia rivoluzionaria, per cui, nel 1794, il suo nome risulta iscritto tra i "rei di Stato" per aver parteggiato a un tentativo di rivolta giacobina concluso con la condanna a morte dei colpevoli. In tale contesto, la Regina Maria Carolina, fautrice del dispotismo illuminato, si sentì tradita da quei circoli che, dopo aver lavorato con lei per porre le basi di una monarchia moderna, propugnavano l'avvento della repubblica. I salotti degli illuministi napoletani vennero pertanto combattuti inflessibilmente dalla regina, spinta anche dall'odio verso i giacobini responsabili della morte della sorella Maria Antonietta, regina di Francia.
Nel 1798 Eleonora de Fonseca venne quindi incarcerata con l'accusa di giacobinismo. Nel gennaio 1799, in esito all'armistizio firmato tra il rappresentante del Regno di Napoli e i Francesi, fu liberata dai "lazzari", che, facendo evadere alcuni delinquenti comuni, liberarono anche detenuti politici. Il 22 gennaio 1799, la ritroviamo tra coloro che proclamano la Repubblica Napoletana. Il successivo 2 febbraio esce il primo numero del "Monitore Napoletano", periodico bisettimanale dalla stessa diretto. In tale contesto, volle cancellare dal suo cognome il "de" nobiliare per diventare una protagonista della vita politica e civile della Repubblica Napoletana, scrivendo tra l'altro l'"Inno alla Libertà". Allorché, nel giugno 1799, la repubblica venne rovesciata e la monarchia restaurata, la vendetta dei Borbone non tardò. Il processo a suo carico, celebrato il 17 agosto, si concluse con la condanna a morte dell'imputata, che venne impiccata all'età di 47 anni.

Anche Maria Luisa Sanfelice (al secolo Maria Luisa Fortunata de Molina), nata a Napoli nel 1764, è legata alle vicende della Repubblica Napoletana. Figlia di un generale borbonico di origine spagnola, divenne "Sanfelice" a 17 anni a seguito del matrimonio con suo cugino Andrea Sanfelice dei duchi di Agropoli e Lauriano, un nobile napoletano senza mezzi e vanaglorioso.
La loro vita a Napoli fu tanto scandalosa, per debiti e gioco, che - dietro supplica della madre di Luisa (Camilla Salinero) - la Corte borbonica decise di mandarli nel paesino di Laureana, decretando la perdita della potestà sui tre figli (che vennero collocati in un convento) e affidando i loro beni a un amministratore. Tuttavia, anche nella nuova residenza, continuarono la loro vita di dissipazione e scandali, per cui la Corte trasferì Andrea in un convento a Nocera e Luisa in un monastero di rieducazione a Montecorvino Rovella.
A seguito dell'invasione francese del 1799 e della proclamazione della Repubblica Napoletana, ebbe origine una cospirazione filoborbonica guidata da una famiglia di banchieri di origine svizzera: i Baker (o Baccher). La Sanfelice, che frequentava sia gli ambienti filorepubblicani che quelli monarchici, ne venne a conoscenza e svelò la trama ai capi della Repubblica. Quindi, per essere protetta dalle conseguenze della congiura, richiese a Gerardo Beccher, ufficiale dell'esercito regio (innamorato di lei seppur non ricambiato), un salvacondotto che poi avrebbe consegnato al suo amante, Ferdinando Ferri, ufficiale della Repubblica, che, essendo venuto a conoscenza del complotto, ne denunciò la trama all'amico Vincenzo Cuoco e ai componenti del "Comitato di Salute Pubblica", permettendo così che venisse sventato.
Mentre la Repubblica Napoletana si avviava alla fine, molti dei cospiratori furono arrestati e condannati a morte. Fra essi la Sanfelice, alla quale il Re Ferdinando non perdonò di aver collaborato con i repubblicani. La stessa verrà giustiziata l'11 settembre 1800 tra la commiserazione generale, anche perché l'accanimento del sovrano nel volere a tutti i costi l'esecuzione della pena capitale, soprattutto dopo l'amnistia, apparve una vendetta a freddo. La tragica vicenda della Sanfelice ispirò, nell'Ottocento, diversi quadri di genere storico-patriottico.

Questa breve carrellata, dedicata ad alcune donne che hanno combattuto per la libertà e alle quali la città di Cagliari ha dedicato delle strade, si conclude con Colomba Antonietti. Nata a Bastia Umbra nel 1826, figlia di un fornaio, si trasferì giovanissima con la famiglia a Foligno dove, appena quindicenne, conobbe il conte Luigi Porzi, cadetto delle truppe pontificie, col quale condivideva il cortile di casa.
I due si parlavano dalle finestre delle rispettive stanze e si incontrarono più volte scambiandosi una promessa di matrimonio. Tuttavia, il diverso ceto sociale cui le due famiglie appartenevano determinò l'ostilità verso l'unione, tanto dei Porzi che degli Antonietti. Dopo che i due giovani furono sorpresi a parlare dalle finestre, scoppiò uno scandalo per cui il giovane venne trasferito a Senigallia. Tuttavia il provvedimento non riuscì a impedire le nozze, che furono celebrate all'una di notte del 13 dicembre 1846 nella Chiesa della Misericordia di Foligno.
I novelli sposi, dopo aver trascorso due mesi a Bologna, si trasferirono a Roma, dov'era di stanza il battaglione di Luigi, promosso tenente. Peraltro, giunto nella città pontificia, il militare fu arrestato per avere contratto matrimonio senza la necessaria autorizzazione e rinchiuso a Castel Sant'Angelo. Nel 1848-49 lo stesso aderì alla Repubblica Romana. Colomba, per combattere al suo fianco, si tagliò i capelli e si vestì da uomo indossando l'uniforme da bersagliere. Partecipò a diverse battaglie e, tornata a Roma, pur continuando a combattere, si impegnò nel soccorso dei feriti.
Morì il 13 giugno 1849, in prima linea a difesa della Repubblica Romana, colpita in pieno da una palla di cannone dell'artiglieria francese. Tra le braccia del marito, secondo la tradizione, prima del mortal sospiro, mormorò: «Viva l'Italia». Della sua tragica fine vi è traccia anche nelle "Memorie" di Giuseppe Garibaldi.
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