EXCALIBUR 133 - ottobre 2021
in questo numero

E ora in Afghanistan?

Un futuro incerto dopo il ritorno dei talebani al potere

di Angelo Marongiu
i colori delle donne, anche bambine, tenderanno a scomparire e dominerà il nero
Sopra: i colori delle donne, anche bambine, tenderanno a
scomparire e dominerà il nero
Sotto: il nuovo volto dell'Afghanistan
il nuovo volto dell'Afghanistan
Quando, nell'aprile 2021, Joe Biden annunciò che tutte le forze americane avrebbero lasciato l'Afghanistan entro l'11 settembre, due decenni dopo l'abbattimento del World Trade Center - nonostante le forti preoccupazioni dei funzionari afghani sulla fragilità del governo senza il sostegno internazionale - qualcuno avrà pensato al 13 novembre 2001, giorno nel quale i talebani abbandonarono Kabul.
Allora l'arrivo della coalizione guidata dagli Stati Uniti pose fine a un regime repressivo. Nel palazzo presidenziale a Kabul il pianoforte a coda era stato sventrato per il timore che un tasto potesse essere accidentalmente premuto e quindi potesse sentirsi un suono di musica.
Ora quei tempi sono nuovamente presenti e il ritorno dei talebani, al di là della rassegnazione dei vecchi, è vissuto con terrore dalla gioventù: dalle donne che sono cresciute libere di socializzare nei caffè e nelle strade, andare a scuola e all'Università, praticare sport; dagli uomini liberi di scegliere il loro futuro e di indossare abiti occidentali.
Erano bambini quando i talebani hanno abbandonato l'Afghanistan e la vita di speranza nella quale sono cresciuti è stata ora spazzata via.
I talebani hanno conquistato il potere - con la violenza non dimentichiamolo, nonostante il brusco e improvvido ritiro delle forze occidentali - ma questa è solo la premessa di un compito certamente più difficile e, per gli Afghani e per il mondo, carico di incognite.
Bisogna governare un paese di 38 milioni di abitanti, estremamente povero, diviso in clan ed etnie che da sempre sono state in conflitto tra di loro. I talebani rappresentano una delle etnie - quella pashtum - la più importante ma non l'unica. Occorrerà quindi fare in modo di essere accettati anche dalle altre etnie e non si sa in che modo, se cooptando loro rappresentanti nel futuro governo o concedendo loro una certa autonomia nella gestione del territorio (e non dimentichiamo che la coltivazione dell'oppio è un'arma allettante).
Un altro grave problema è quello della profonda crisi economica e qui la prospettiva si sposta sul campo internazionale, con la necessità di un minimo di legittimazione da parte delle altre nazioni, per poter aprire le porte agli aiuti indispensabili per riscostruire la loro economia. Un'economia di pace è ben diversa da un'economia di guerra.
È la classe media, la piccola borghesia, nata e prosperata nei passati vent'anni, che deve essere convinta a cooperare con il nuovo governo e così quella intellettuale, che maggiormente ha assaporato il gusto della libertà ed è ora necessaria per le competenze delle quali dispone e che occorrono per far ripartire il paese.
I sei miliardi di dollari di riserve - nei depositi degli Stati Uniti - potranno essere sbloccati solo dando qualcosa in cambio: la veste moderata che hanno assunto i nuovi leader sembra preludere a una maggior tolleranza nell'interpretazione della legge coranica. Ma tutti ricordano ancora il precedente loro governo, con le punizioni in linea con la rigidissima osservanza della sharia e quindi le esecuzioni pubbliche di assassini e adulteri, le amputazioni per i colpevoli di furto e il divieto assoluto della televisione, della musica, del cinema.
Il Ministero per "la lotta al vizio e la promozione della virtù" vietò nel 1998 il volo degli aquiloni che tradizionalmente segnava il passaggio tra il rigido inverno e la dolce primavera.
È possibile quindi che il ritorno dei talebani segni solo il rientro dell'Afghanistan nella schiera dei paesi fortemente e ossessivamente religiosi alla stregua di diversi altri nell'area. E nient'altro.
Cinicamente potremmo osservare che questi sono solo problemi interni, sui quali l'illusione di poter contribuire a un cambiamento deve essere messa da parte e catalogata tra le tante illusioni del mondo occidentale.
Il nostro interesse fondamentale è quello di evitare che il territorio afghano ritorni a essere un santuario per il terrorismo jihadista, la base dalla quale - come in passato - irradiare la loro religione di distruzione, il luogo dove attirare e addestrare nuovi combattenti creando il centro radicante di proselitismo ed emulazione. Nessuna patria per nuovi Bin Laden.
E occorre anche evitare - punto di altrettanta complessità e delicatezza - che si scateni un disastro umanitario che colpirebbe una popolazione indifesa e già poverissima, ora privata anche di quei fondamentali diritti umani in nome dei quali si sono mobilitati miliardi ed eserciti. Il conseguente flusso di profughi sarebbe catastrofico e difficilmente limitato ai soli paesi confinanti.
Questo è, a mio parere, il più profondo dilemma occidentale e gli strumenti di pressione a disposizione del nostro mondo sono molto limitati. La leva sugli aiuti materiali e finanziari - pur importante - è a doppio taglio. Le inadempienze di eventuali accordi di tale tipo sarebbero difficilmente contrastabili.
Un piccolo spiraglio può essere il comune nemico - per noi occidentali e per Kabul - annidato nello stato islamico del Korashan. Ma, al di là delle evidenti ambiguità, il gioco è tutto nelle mani degli Stati Uniti poiché qualunque azione di contrasto a tale fanatismo sarebbe vana senza il loro adeguato supporto aereo e tecnologico.
Il binomio conflitto e cooperazione tra Occidente e Afghanistan, mascherato quanto si voglia, è destinato a essere coniugato in qualche modo, superando ogni ipocrisia di facciata.
Ciò che il mondo occidentale deve assolutamente evitare è che la stabilizzazione dell'Afghanistan diventi esclusiva competenza della Cina, della Russia e del Pakistan, ciascuno interessato - non certo per beneficenza e per motivi diversi da una nazione all'altra - a gettare la propria ombra su quel paese. E non solo per le implicazioni di tipo economico, energetico e minerario.
Alcuni studi hanno valutato in circa tremila miliardi di dollari il potenziale economico del sottosuolo afghano; secondo la United states geological survey potrebbero essere presenti fino a 60 milioni di tonnellate di rame, oltre 2 miliardi di tonnellate di ferro e inoltre cobalto, oro e altri minerali preziosi.
Ma sono soprattutto le cosiddette "terre rare" - lantanio, cerio, neodimio e soprattutto litio - il vero tesoro dell'Afghanistan. Si tratta di risorse fondamentali per la produzione di telefoni cellulari, televisori, motori ibridi, tecnologia laser, batterie e sistemi di comunicazione e di navigazione.
Gli occhi della Cina in particolare sono puntati su questo tesoro ed è palese la loro volontà di metterci sopra per primi le mani. Pechino mantiene un profilo basso, ma le aderenze tra il gigante cinese e il paese dell'oppio vanno ben oltre i 76 chilometri di frontiera del corridoio di Wakham che costeggia la catena montuosa del Pamir.
La Cina ha investito nell'Afghanistan negli ultimi anni almeno 4 miliardi di dollari ed è un investimento che può fruttare molto. Inserirsi in Afghanistan, crocevia dell'antica e della nuova "Via della Seta", avrebbe anche interessanti implicazioni geopolitiche, mantenendo quindi una separazione anche territoriale tra Russia e India, motivo strategico del disegno dei cartografi imperiali inglesi artefici degli strani contorni di quel paese.
Sta agli occidentali inventare le mosse adeguate per la soluzione del puzzle del mosaico afghano. Inglesi, Russi, Statunitensi non sono riusciti a vincere nessuna guerra, ma neanche a creare i presupposti per una qualsiasi forma di pace o di convivenza.
Non so cosa accadrà nel futuro dell'Afghanistan: il passato dei talebani non induce a sperare, ma neanche l'approssimazione e la sufficienza con la quale il mondo occidentale affronta realtà così diverse dal "canone occidentale".
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