EXCALIBUR 134 - novembre 2021
in questo numero

Fascismo e antifascismo oltre la storia e la politica

Un'antitesi risolta a livello istituzionale e storico, ma che persiste come mito

di Angelo Abis
una contrapposizione che non muore mai
Una contrapposizione che non muore mai
Il recente assalto alla sede della Cgil ha riportato alla ribalta la vexata quæstio di due realtà: fascismo e antifascismo, inquadrate ormai oltre la storia e la politica in una dimensione quasi metafisica. Vedi la definizione di "fascismo eterno" della buonanima dello scrittore Umberto Eco.
Sgombriamo subito il campo: tutto ciò ha poco a che vedere con fascismo e antifascismo come si sono storicamente delineati nel periodo 1919-1945.
Questi movimenti cessarono nell'aprile del 1945, il primo per la sconfitta militare, il secondo per la scomparsa del nemico.
Ma se era pur vero che la sconfitta aveva determinato l'impossibilità di una rinascita del vecchio fascismo, era altrettanto vero che nella cosiddetta nuova Italia permanevano alcuni milioni di cittadini che non avevano nessuna intenzione di rinunziare al loro vissuto personale, alla rivendicazione di una guerra ritenuta giusta, perduta per colpa dei "traditori", alla intrinseca malvagità dei nemici esterni e interni, alle idee per le quali avevano combattuto, alla possibilità di poterle esprimere liberamente.
È da questa base che sorgerà il Msi, non a caso definito sinteticamente dallo storico Salvatore Sechi: «Msi: ricostituito col consenso delle sinistre, è un partito con una caratterizzazione inequivocabile. Si tratta di un collettore di quanto (idee, rivalse, rancori, dirigenti e seguaci) è sopravvissuto alla Repubblica Sociale».
Dal lato opposto il fronte antifascista coagulava intorno a sé quanti si erano opposti prima al regime fascista e poi alla Rsi e ai Tedeschi, tutti coloro che avevano militato, direttamente o indirettamente, nella resistenza, con la parziale eccezione delle frange, peraltro minoritarie, cattoliche, liberali e monarchiche e anche un buon numero di ex intellettuali fascisti convertiti al verbo dalla vittoriosa rivoluzione marxista.
Questo fronte, afflitto dal complesso del vincitore in quanto convinto, lui, di aver abbattuto il fascismo, considerato con la definizione tutt'ora in voga di "male assoluto", riteneva inammissibile qualunque cedimento o comprensione nei confronti degli sconfitti: essi andavano definitivamente eliminati non solo dalla vita politica, ma anche da tutte le istituzioni, ovvero persino dalla vita civile.
Con queste premesse era ovvio che fascismo e antifascismo estrapolati dalla realtà storica assurgessero al ruolo di miti, indiscussi e indiscutibili, sottratti, nel bene o nel male, a ogni possibilità di discussione e revisione storica. Il massimo della dialettica tra i due gruppi è consistita e consiste tutt'ora nel rinfacciarsi reciprocamente stragi, assassinii, violenze e sopraffazioni di ogni tipo.
Ma il discorso cambia completamente quando si va a esaminare il pensiero delle loro classi dirigenti, soprattutto nelle componenti più avvedute e realiste.
Partiamo dal fascismo clandestino, le cui formazioni politiche sono i Far (Fasci d'Azione Rivoluzionaria), con un progetto politico che ricalca più o meno lo schema del fascismo del 1920-22 e che consiste nel rientrare da padroni nell'agone politico nazionale, inserendosi tra la spinta rivoluzionaria delle sinistre e lo spirito imbelle della Dc. Capo indiscusso dei Far è Pino Romualdi, ex vicesegretario del Pfr nella Repubblica di Salò, con due condanne a morte sulle spalle e che opera clandestinamente a Roma nell'ultimo scorcio del '45. Fu proprio Romualdi agli inizi del '46, non si sa bene se su sua iniziativa o andando incontro a iniziative dei partiti antifascisti, allora tutti al governo, a intavolare una trattativa con esponenti di tutti partiti, con l'unica eccezione del Partito d'Azione.
Ma lasciamo la parola a Romualdi che ne parlò per la prima volta nel 1970: «Stabilito che di noi avevano un po' paura e un po' bisogno tutti, e che noi a nostra volta avevamo bisogno di tutti, per uscire al più presto e nel modo migliore dalla disastrosa situazione in cui eravamo, il nostro discorso doveva dunque essere semplice. Si trattava di convincere le sinistre che noi avremmo impedito alle nostre forze di prestarsi a ogni manovra provocatoria nel caso che la Repubblica avesse prevalso e i monarchici avessero tentato di armare le nostre forze per una reazione in extremis. Ai monarchici, invece, ci bastava assicurare il nostro appoggio elettorale».
Romualdi parla poi degli incontri che ebbe con esponenti democristiani, socialisti, monarchici e dell'Uomo Qualunque.
Diverso fu l'approccio con i comunisti: «I soli con i quali non ebbi contatti diretti furono i comunisti, nonostante che in almeno un paio di occasioni ci fecero sapere di essere dispostissimi a farlo [...], in occasione di alcuni gravi incidenti scoppiati a Napoli il 24 maggio 1946 (ad opera dei monarchici, n.d.r.) i miei interlocutori di sinistra mi proposero di incontrare un grosso capo comunista: Terracini, Scocimarro o Negarville, a mia preferenza. Risposi che, pur dispostissimo a intervenire per limitare i tumulti [...] cosa che feci [...] non avevo nessuna intenzione di incontrare il grosso capo comunista. Se potevo credere alle intenzioni pacifiche dei democristiani e dei socialisti, non potevo ovviamente credere a quelle dei comunisti. Un discorso (quello con i partiti) che durò molti mesi [...], portò alla fine al risultato di impegnare tutti, dai comunisti ai democristiani, ai socialisti e ai monarchici [...] a garantire che avrebbero concesso una amnistia generale a favore dei fascisti e di quanti avevano collaborato col "tedesco invasore" [...]. L'amnistia fu prontamente promulgata il 22 giugno del 1946 con la firma di Palmiro Togliatti».
Sul fronte avverso, secondo lo storico francese Paul Serant, autore del volume "I vinti della liberazione", i primi a tentare il dialogo con i fascisti furono proprio i comunisti, i quali erano praticamente i soli ad avere una approfondita conoscenza culturale e storica del fascismo, molto più avanzata rispetto agli altri partiti.
Iniziò Giancarlo Pajetta, che, su regia di Togliatti, in un articolo su "L'Unità" del 15 settembre 1945, scrive: «Non saremo certo noi comunisti a volere che siano privati di ogni possibilità di vita, per sempre, a quanti furono fascisti un tempo. Non siamo certo noi che chiediamo che sia tolta ogni possibilità di lavorare anche a coloro che l'epurazione colpisce e toglie dai posti che hanno indegnamente occupato».
In un altro editoriale sull'edizione piemontese de "L'Unità", il 28 ottobre 1945, Pajetta difende la strategia di recupero alla democrazia degli ex fascisti contro le accuse, mosse da "reazionari" e "sedicenti democratici", di opportunismo e di spregiudicatezza. In realtà i reazionari e i sedicenti democratici sono gli ex partigiani comunisti dell'alta Italia.
Ma Togliatti non tiene molto conto della base e degli ex partigiani, né di una fetta consistente dello stesso vertice comunista capeggiata da Pietro Secchia, e prosegue per la propria strada a trattare con gli sconfitti e ad avvallare l'idea di una riconciliazione nazionale, anche perché su questa linea, con la sola eccezione del Partito Azionista, sono d'accordo tutti i partiti del governo. In vista del referendum istituzionale e delle elezioni per la Costituente, i comunisti presero contatto con il fascismo clandestino, cui promisero la liberazione della maggior parte dei loro militanti in cambio del voto a favore della repubblica.
I contatti fascisti-comunisti furono segretissimi, mentre ufficialmente i rispettivi fans giuravano odio e vendetta per l'eternità. Solo dopo più di quarant'anni Pajetta e qualche altro dirigente del Pci ammisero le trattative con i nemici. È dato anche a pensare che il tutto avvenisse senza il consenso dei Russi, se è vero che un agente del "Comintern" (l'internazionale comunista), Ivanovic Vassilij, ebbe a dichiarare nel 1949: «Il partito italiano (Pci, n.d.a.) non era autorizzato a "trattare", aveva accettato tra le sue braccia buona parte di minutaglia di "ex" e anche numerosi pezzi grossi; ma trattative da movimento a movimento non erano ammesse».
Ma se a tutt'oggi abbiamo scarsa documentazione scritta e orale delle trattative che portarono alla cosiddetta "amnistia Togliatti", brancoliamo nel buio - e tutti gli attori siano essi di destra, di centro e di sinistra hanno tenuto (e tengono) le bocche ben cucite e i documenti ben nascosti - su un aspetto per certi versi forse più importante della stessa amnistia: la possibilità che i fascisti potessero costituire, pur con tutte le cautele e le assicurazioni del caso, un proprio partito.
Di certo i fascisti ebbero partita vinta, visto che il 26 dicembre del 1946 fu ufficialmente costituito il Movimento Sociale Italiano, con tanto di riconoscimento da parte della pubblica autorità.
Non sappiamo le garanzie che i fascisti dovettero dare per essere accettati nella famiglia dei partiti democratici e repubblicani, ma un dato è certo: a settantacinque anni da quell'accordo segreto, i protagonisti della vicenda hanno rispettato i patti e pur con le reciproche diffidenze e sospetti, i cosiddetti partiti antifascisti non hanno mai preso in considerazione la possibilità di eliminare il Msi, pur dichiarandosi questo, almeno sino al 1995, fascista. Né il Msi ha mai derogato dall'osservanza delle norme dello stato democratico parlamentare. Arriverà poi, negli anni '70, con la monumentale opera su Mussolini dello storico ebreo ex comunista Renzo De Felice, la cancellazione di una storiografia pregiudizialmente antifascista.
Tutto il resto che sopravvive ai giorni nostri, pur essendo tutt'altro che irrilevante, quando non è curiosità storica e intellettuale, è pura nostalgia per lo più ininfluente sul piano politico, sino a quando non presta il fianco a speculazioni sfruttate strumentalmente dagli attori della politica per porre in difficoltà i propri avversari.
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