EXCALIBUR 140 - maggio 2022
in questo numero

Le città della Sardegna

"Città" come luogo di sviluppo della civiltà

di Antonello Angioni
la corona turrita, simbolo della città italiana
Sopra: la corona turrita, simbolo della città italiana
Sotto: le "città" Cagliari dal 1327 e Sanluri dal 2021
le 'città' Cagliari dal 1327...
... e Sanluri dal 2021
L'ultimo comune della Sardegna entrato a far parte della ristretta cerchia delle "città" (si tratta di 23 comuni su 377) è Sanluri. Con D.P.R. 12 aprile 2021, infatti, è stato concesso all'importante centro del Medio Campidano il diritto di potersi fregiare, negli atti ufficiali, del titolo di Città. Quindi anche Sanluri potrà utilizzare la corona turrita, formata da un cerchio d'oro aperto da otto pusterle (cinque visibili) con due cordonate a muro sui margini, sostenute da otto torri (cinque visibili), riunite da cortine di muro: il tutto d'oro e murato di nero.
Attraverso tale provvedimento, in pratica, si è preso atto dell'importanza storica, artistica e civile che la comunità in questione riveste. Il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (approvato con D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), infatti, stabilisce che «il titolo di città può essere concesso con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'Interno, ai comuni insigni per ricordi, monumenti storici e per l'attuale importanza».
È noto che in Sardegna, con la dominazione catalano-aragonese iniziata nel 1323, venne introdotto il feudalesimo. Tuttavia, a partire da tale periodo e poi in epoca spagnola, taluni comuni furono esentati dalla giurisdizione feudale. Tali entità - denominate "città regie" - godevano di un particolare status giuridico che ne favorì lo sviluppo. Infatti non erano soggette ai vincoli e ai doveri feudali ma sottoposte esclusivamente alla giurisdizione reale e titolari di privilegi e concessioni derivanti dalla loro peculiare condizione.
Cagliari e Iglesias (allora Villa di Chiesa) ottennero il titolo di "città regia" nel 1327, Sassari nel 1331, Castelsardo (all'epoca Castel Aragonese) con bolla della Corona d'Aragona del 1448, Oristano nel 1479, Bosa con prammatica di Ferdinando il Cattolico del 1499 e, infine, Alghero con carta reale del 28 agosto 1501. A queste sette "città regie", con regio decreto del 10 settembre 1836 (e quindi in periodo sabaudo), se ne aggiunsero tre: Tempio Pausania (allora Tempio), Nuoro e Ozieri.
Per capire l'importanza che tale riconoscimento ha avuto in passato, occorre considerare che i rappresentanti delle città costituivano uno dei tre bracci (e precisamente lo "Stamento reale") dell'antico Parlamento sardo, istituito nel 1355 dal sovrano Pietro IV d'Aragona e rimasto in vita, almeno sulla carta, sino al 1848, allorché - a seguito della "fusione organica" della Sardegna con gli stati di Terraferma - si sancì la fine del viceregno e delle sue istituzioni rappresentative. Nell'ambito della città regie poterono trovare spazio la libera iniziativa economica e forme di autogoverno.
Realizzata l'unità d'Italia, venne introdotto il sistema, d'ispirazione napoleonica, che riconosceva enti territoriali dotati di alcuni poteri di natura amministrativa ma sottoposti a un penetrante controllo governativo e organizzati secondo un modello uniforme (il "comune" disciplinato da una legge generale). In tale ambito la "città", pur continuando a rappresentare un'importante realtà della società nazionale, non ebbe più specifica rilevanza nell'ambito dello Stato restando in tutto livellata, dal punto di vista giuridico e amministrativo, a qualsiasi borgo eretto in "comune".
Tuttavia una traccia della tradizione cittadina è testimoniata dall'uso che alcuni comuni fanno del titolo di "città" nei loro atti ufficiali. Sul piano giuridico, peraltro, si tratta di una semplice distinzione onorifica priva di riscontro nel vigente ordinamento delle autonomie locali (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267). La norma di riferimento (l'art. 45 del R.D. 5 luglio 1896, n. 314, riprodotto dall'art. 40 del R.D. 21 gennaio 1929, n. 61) stabiliva che il titolo di città potesse «essere concesso a comuni insigni per ricordi o monumenti storici, che abbiano convenientemente provveduto a ogni pubblico servizio e in particolar modo all'assistenza, istruzione e beneficenza e che abbiano una popolazione agglomerata nel capoluogo non minore di 10.000 abitanti».
Con questa disposizione veniva attribuito un riconoscimento a quei comuni che vantavano "tradizioni cittadine" e, nel contempo, mostravano di rendersene degni attraverso un'efficiente organizzazione soprattutto nel campo delle attività sociali. Si è anche sostenuto che la norma sia stata abrogata, con decorrenza dal 1 gennaio 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione della Repubblica), per effetto della XIV disposizione transitoria. In realtà, sulla base di una lettura sistematica e soprattutto della ratio della disposizione, può ritenersi che l'abolizione abbia riguardato i soli titoli nobiliari veri e propri (quale residuo di antichi privilegi contrastanti col principio di uguaglianza) e non anche il titolo di "città", che si ricollega a una tradizione civile e democratica che la Costituzione ha inteso riconoscere e valorizzare.
Ai tali dieci comuni sardi che potevano vantare il titolo di "Città" da epoca precedente l'Unità d'Italia, nel 1939 si aggiunse Carbonia, una città di fondazione realizzata in quegli anni in collegamento all'esercizio dell'attività estrattiva (vedere R.D.L. 30 marzo 1939).
Quindi, dopo l'entrata in vigore della Costituzione della Repubblica, altri 12 comuni della Sardegna hanno ottenuto il prestigioso riconoscimento. Nell'ordine: la Maddalena (D.P.R. 6 luglio 1948), Olbia (D.P.R. 11 aprile 1953), Quartu Sant'Elena (D.P.R. 9 gennaio 1959), Porto Torres (D.P.R. 16 febbraio 1960), Macomer (D.P.R. 15 luglio 1976), Monserrato (D.P.R. 19 gennaio 1999), Ittiri (D.P.R. 24 aprile 2000), Lanusei (D.P.R. 10 dicembre 2002), Tortolì (D.P.R. 30 marzo 2004), Sorso (D.P.R. 11 maggio 2004), Siniscola (D.P.R. 28 maggio 2013) e da ultimo, come detto, Sanluri (D.P.R. 12 aprile 2021). Si tratta di centri con diversa storia, tradizione civile e popolazione, accomunati peraltro da importanti valori di civiltà e di cultura.
Invero, non vi è dubbio che dall'età comunale e fino ai nostri giorni la città è stata il crogiolo di tutte le evoluzioni nella vita della nazione italiana in ogni settore: politico, economico, sociale e culturale. Solo la città, infatti, è in grado di fornire le condizioni materiali per una significativa trasformazione degli assetti esistenti. È la città stessa a determinare l'apparente paradosso di creare il potere concentrato e le condizioni del suo superamento: una sorta di dialettica hegeliana con la tesi e l'antitesi dove poi la sintesi sarà data dal nuovo assetto del potere.
La storia ci insegna che le grandi trasformazioni, i movimenti di rinnovamento della società non si accendono nelle campagne ma nelle città. Ma perché il cambiamento parte dalle città? Esistono indubbiamente delle ragioni culturali: la città, infatti, ospitando le istituzioni della cultura e spesso l'università, attrae gli intellettuali che costituiscono, da sempre, uno degli elementi - forse il fondamentale - di ogni processo di trasformazione sociale: sono occasione di confronto e fermento di rinnovamento continuo.
Inoltre soltanto nella città sono riscontrabili due condizioni di fondo: l'esistenza delle sedi del potere (politico, amministrativo, religioso) e, al tempo stesso, di gruppi di popolazione con una forte carica di ostilità nei confronti di questo potere. La relazione dialettica che, all'interno della città, si instaura tra i centri del potere e i gruppi antagonisti allo stesso fa la differenza tra ciò che avviene nelle grandi rivoluzioni di matrice urbana rispetto ai processi di sollevazione rurale (quale ad esempio, la jacquerie, la rivolta contadina verificatasi nella Francia del XIV secolo).
Nella storia dell'umanità dunque la città sta sempre alla base di ogni evoluzione sociale e culturale, di ogni ipotesi di progresso e di civiltà. Al suo interno esprime un dinamismo che si contrappone ai ritmi delle società agrarie, le quali costituiscono le roccaforti della meccanica ripetitività, la negazione della dialettica e del progresso. È per questa ragione che la salvaguardia della città e della sua identità non solo coincide con la difesa di un'autenticità e di una storia ma rappresenta altresì il presupposto di ogni continuità e progresso civile. Ed è per questa ragione che cessa di essere l'artefice del suo destino e si dequalifica il popolo che si allontana dai valori della cultura "urbana".
La disamina, sia pur breve, del ruolo svolto dalla città nel corso dei secoli rende evidente come la stessa rappresenti una delle forze primarie nella storia: da sempre è il luogo della civiltà e del progresso, da cui gli uomini partono alla conquista di nuovi orizzonti. La città non esprime dunque solo la dimensione di una funzione ma anche, e soprattutto, la dimensione dell'esistenza, che poi è ciò che definisce il livello di civiltà di un popolo. Non a caso "città" e "civiltà" sono due parole che hanno la stessa radice.
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