EXCALIBUR 143 - agosto 2022
in questo numero

Maria Lai e Giuseppe Dessì: un gioco delle parti

Un legame profondo fra i due artisti sardi

di Antonello Angioni
<b>Maria Lai</b> (Ulassai 1919 - Cardedu 2013)
Sopra: Maria Lai (Ulassai 1919 - Cardedu 2013)
Sotto: "Ricucire il mondo"
'Ricucire il mondo'
La sua poetica era tutta tesa a cucire, a collegare, a unire gli esseri umani al mondo materiale delle cose e alla natura: un dialogo profondo con l'universo e l'infinito. Non vi è dubbio che - a quasi dieci anni dalla scomparsa - Maria Lai resti una figura assai importante nel panorama culturale internazionale, essendo stata in grado di cogliere, più di altri, la complessa relazione che intercorre tra la condizione umana, l'arte, la natura e la storia.
C'è da chiedersi in che misura, nel percorso formativo della grande artista di Ulassai, abbia inciso il rapporto ventennale con Giuseppe Dessì: rapporto personale e intellettuale fatto di fili sottili, visibili e invisibili, di intrecci, di silenzi, in fondo di magia, per usare un termine che forse interpreta e racchiude anche gli altri.
Dessì era il suo dirimpettaio nella casa romana di Via Prisciano, 75, dove Maria viveva dal 1954. Dessì si trasferì l'anno dopo. In particolare, dalla finestra del suo appartamento, poteva osservare il tinello di Maria, luogo di incontri, di progetti di lavoro, di cene. Lo scrittore, autore di leggende e miti sardi, si perdeva a osservare Maria Lai intenta a tessere al telaio per tante ore. E sarà proprio per lei che scriverà il racconto mitologico "Figlia di un dio distratto", che Maria illustrerà in uno dei suoi preziosi libri tessuti. E, fra quelle pagine, la parola si trasforma presto in un filo che disegna delle figure simboliche, varco di un mondo originario sospeso tra fiaba e leggenda.
Il "Dio distratto", che data al 1990, trasforma e trasfigura la "Leggenda del Sardus Pater" scritta da Giuseppe Dessì «in memoria di Salvatore Cambosu, inventore di miti» e pubblicata, per la prima volta, il 29 novembre 1957 sul quotidiano "Il Tempo", poi in altri giornali, nel 1977 in un'edizione urbinate e, infine, dieci anni dopo dalle Edizioni della Torre, nella raccolta (postuma) "Un pezzo di Luna. Note, memoria e immagini della Sardegna", curata da Anna Dolfi.
Il rapporto di amicizia con Dessì risale all'incirca al 1947 ma si consolida nel 1957, allorché Maria inaugura a Roma, nella Galleria d'arte "L'Obelisco", una prima personale di disegni a matita. Nel 1958 Dessì espone con Maria Lai a Roma, nella galleria "Il Cenacolo". Da questa amicizia nasce l'interesse all'approfondimento dei miti e delle leggende della tradizione sarda. Giuseppe Dessì narrava miti e leggende sarde e, su queste, Maria Lai intesseva i suoi libri: dunque un rapporto di condivisione, di ispirazione reciproca che li portò a essere amici fino alla morte dello scrittore.
Va detto che il rapporto con Dessì si approfondisce in quel periodo, durato quasi dieci anni, di inattività "esterna" di Maria Lai, che consente alla stessa una riflessione sul versante "interno". Nell'arco di tempo dell'inattività nasce la profonda amicizia col suo vicino di casa. Come ebbe modo di ricordare Maria Lai nel 2007, a Villacidro, ospite del "Premio Dessì", «C'è stata quasi una convivenza per una ventina di anni, tra il 1957 e il 1977. Un cortile separava le nostre finestre e una scala univa le nostre abitazioni [...]. Dessì, guardando dalle sue alle mie finestre, diceva di essere sempre a teatro e mi diffidava dal mettere le tende».
È un periodo di preparazione, di affinamento della personalità artistica. L'"otium", del resto, non è pigrizia: è la fase di attesa, di riflessione, che serve a meglio impostare e dirigere le future azioni. Ciò accade anche a Maria, che, alla fine degli anni Sessanta, inizia a produrre le opere relative alla memoria ancestrale dell'Isola natia e, nel 1971, espone i primi "Telai": si tratta di opere essenziali che interpretano e rappresentano la forza e, al tempo stesso, la fragilità dei vincoli esistenti tra umanità, materia, paesaggio, ambiente e vita.
Il racconto mitologico di Dessì, cui ho fatto riferimento, narra di un dio annoiato che si fa uomo in un piccolo lembo di terra sperduto nel mare, abbandonato da millenni e disabitato, dove si poteva sentire solo il canto degli uccelli e lo squittio della volpe. Il Dio salì con fatica sulla cima più alta e, con stupore, si accorse che l'Isola somigliava all'orma di un gigantesco piede umano: il riferimento alla Sardegna è sin troppo evidente. È un dio che si fa uomo ma vecchio, perché solo chi vive con fatica riesce a desiderare e sognare l'impossibile.
Un giorno vide arrivare dal mare uno sciame d'api. Fu felice e, dopo qualche giorno, la sua capanna era circondata da una decina di arnie. Il vecchio, risparmiando molta fatica, poteva nutrirsi di un miele salutare. Quelle arnie, disposte intorno alla capanna, facevano pensare a un villaggio sorto intorno al tempio di un dio. Intanto uno sciame d'api segue il "Dio distratto" che involontariamente, con una scintilla, trasforma gli operosi insetti in tante piccole creature femminili: nascono così le janas. In questo "Dio distratto", Giuseppe Dessì vede il creatore di Maria, l'origine della sua magia di piccola jana.
Maria Lai accetta il gioco e sente di essere stata creata da quel Dio. Quindi, con emozione, tesse la bellezza di queste piccole fate che giocano a essere donne e insegnano alle donne che sbarcano sull'Isola l'arte della filatura e della tessitura. Le donne sarde diventano così grandi tessitrici di stoffe e di vita, praticando il rigore e la pazienza con gli uomini che, peraltro, non sempre sono gentili con loro. Giovanna Cerina, in un saggio pubblicato nel n. 5/2004 della rivista Portales (pag. 128), ha affermato che «Dessì ricercava, con raro acume, alcune tracce indelebili segnate dalle donne, tracce della loro presenza nella storia».
E allora sfogliare le fiabe di Maria Lai vuol dire credere alla magia e ai sogni. Ma ciò è possibile solo se si è disposti a ritornare bambini, a recuperare il proprio essere autentico. In questa prospettiva, Maria assume le vesti dell'affabulatrice e della tessitrice di parole, oltre che di testimone del tempo e guardiana della memoria. La stessa verrà sempre ricordata per la sua originalità artistica, per la sua determinazione e per essere stata una donna coraggiosa che, nonostante tutto, non ha mai perso di vista i suoi obiettivi e le sue passioni.
In Maria Lai troviamo sapientemente congiunte tradizione e innovazione. La sua arte racchiude suggestioni e sollecitazioni che attingono alla mitologia greca come alla cultura millenaria della Sardegna. Ma comunica attraverso un linguaggio nuovo, nato dall'intersezione tra parole e immagini. Anche la panificazione, la tessitura e il cucito - tecniche artigianali provenienti dal passato - attraverso le sue mani subiscono un processo di straniamento, acquistando un significato nuovo, afferente al pensiero estetico e totalmente proiettato nella contemporaneità.
Maria Lai, tra l'altro, ci ha dato diversi esempi di "arte di relazione": si tratta di sculture all'aperto realizzate con gli elementi della natura, dove protagonista è l'uomo e la sua perenne necessità di relazionarsi agli altri uomini. In particolare, nel 1981, proprio a Ulassai, ha realizzato l'opera "Legarsi alla montagna". La sensazione è che Maria voglia ricucire i legami ancorandosi a qualcosa di saldo che, nel frattempo, la comunità ha perso: il senso di appartenenza.
In lei, come in Dessì, emerge una segreta vocazione all'unità e all'armonia che attinge dal silenzio, dal senso ancestrale dei grandi spazi, fuori dal chiasso e dalla volgarità dell'ora presente e delle mode effimere. La creatività di Maria, forse, si ricollega al fatto che da piccola era cresciuta non distante da un accampamento di zingari che si erano fermati per un anno intero vicino alla casa degli zii, nella campagna di Ulassai, dove da bambina era andata a vivere per motivi di salute. Forse è proprio questa esperienza "gitana" a plasmare la sua vocazione al sogno e all'arte.
Al centro della sua produzione artistica, in particolare, ritroviamo alcuni concetti - mi riferisco soprattutto a "vuoto" e "silenzio" - che a quella esperienza hanno sicuramente attinto. Ritornando al rapporto con Dessì, è assai importante il dialogo contenuto in un libro costruito a posteriori all'insegna "del Gioco delle parti" (al riguardo, si veda "Un gioco delle parti - Giuseppe Dessì - Maria Lai", a cura di Anna Dolfi, Cagliari, Galleria d'Arte Duchamp, 1997).
«L'arte fa paura: non la si può utilizzare per scopi utilitari, altrimenti diventa magia nera e porta l'uomo alla morte», ammoniva Maria. L'arte, in fondo, non dà certezze. È la stessa ad ammetterlo quando afferma che «l'arte sembra una frivolezza, non dà certezze ma indica una direzione di salvezza».
In conclusione può dirsi che Maria Lai è stata non solo una pittrice, una tessitrice di fili e di leggende, ma anche una fucina di idee. La stessa rifiuta l'utilitarismo estetico, come del resto hanno fatto Giuseppe Dessì e Salvatore Cambosu, come farà Salvatore Satta: tutti ben consapevoli del carattere "sacro" della creazione artistica. E, in fondo, forse è questa l'eredità più importante che ci ha lasciato.
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