EXCALIBUR 147 - dicembre 2022
in questo numero

Balcani senza pace

Alle origini di un confitto che può riesplodere da un momento all'altro

di Giovanni Ferrari
una regione martoriata (ancora una volta)
Sopra: una regione martoriata (ancora una volta)
Sotto: Kosovo, carabinieri sul ponte che divide Mitrovica, la
Berlino dei Balcani e slogan contrastanti
Kosovo, carabinieri sul ponte che divide Mitrovica, la Berlino dei Balcani
slogan contrastanti
La situazione nei Balcani preoccupa forse più della "Operazione Speciale" che vede contrapposte Russia e Stati Uniti. Sì... "Stati Uniti": l'Ucraina è il contendere dello scontro, capeggiata da un leader messo a capo di quel paese con un colpo di mano e che tutto sembra volere tranne che la pace (la Nato, il terzo attore della commedia, soggiace ai voleri di Washington).
Ma mentre la Russia è mossa da ragioni (anche) economiche oltre che territoriali (Donbass e Crimea), in Kosovo la contrapposizione tra Kos (Kossovari di etnia serba) e Koa (kossovari di etnia albanese) ha ragioni di natura etnico-religiosa e lo sappiamo, le guerre di religione non sentono ragioni né accettano compromessi.
Noi, l'Italia intendo, alla fine degli anni '90 ci siamo subito schierati con il Kosovo, sulla scia degli Americani (sempre loro), con il governo D'Alema che autorizzò l'utilizzo delle nostre basi aeree e dei nostri Tornado per bombardare Belgrado. Non ci crederete ma non ci fu una manifestazione di protesta, dico una, a opera dei cosiddetti pacifisti che, guarda caso, quando sfilano mostrano bandiere arcobaleno e bandiere rosse (il connubio cromatico è indissolubile).
Negli ultimi mesi il focolaio di violenze tra Serbi e kossovari si è ravvivato e la situazione sembra destinata a peggiorare.
Mi piace condividere con voi la mia esperienza militare in quell'area, avvenuta nel 2012 sotto egida Nato (non art. 5, cioè non per difendere da un attacco esterno un paese Nato, ma come missione di peace-keeping, per il mantenimento della pace appunto). Ero alla Stato Maggiore del contingente Carabinieri, rivestivo il grado di Maggiore ed ero responsabile del servizio delle Operazioni e delle Informazioni.
Alle 8,00 dell'8 maggio 2012 ha inizio la mia missione di pace destinazione Kosovo.
Il contingente italiano, in maggioranza Esercito e Carabinieri, si ritrova al terminal 3 dell'aeroporto di Roma Fiumicino per la partenza, pronto a subentrare a chi in Kosovo c'è già da sei mesi (tanto dura all'incirca l'impiego per le missioni "fuori area").
L'arrivo in teatro operativo non offre nessuna sorpresa: tutto è davvero desolato e tristemente arretrato. Viaggiando dall'aeroporto militare situato a sud del Kosovo (dono dell'Aeronautica militare italiana) verso la capitale Pristina, le strade - pseudo superstrade che all'improvviso si interrompono per diventare sterrate - e i paesi che si attraversano (è più giusto parlare di villaggi) rendono bene l'idea di un paese arretrato, uscito da poco più di un decennio da una guerra civile a sfondo etnico-religioso che vedeva e vede contrapposti Serbi e Kossovari (il Kosovo era una provincia situata al centro-sud della ex Jugoslavia, preferita da Tito per le sue battute di caccia).
Questa guerra, più delle altre che la storia e la cronaca ci raccontano, non ha avuto, né avrà, vincitori, ma solo perdenti: ha perso la civiltà, l'amore verso Dio (che si chiami Allah o Gesù Cristo non ha molta importanza), l'amore verso gli indifesi e i più deboli.
I Serbi sbandierano ancora la battaglia di Kosovo Poljie avvenuta nel 1389, in cui riuscirono a fermare l'avanzata degli Ottomani decisi a conquistare l'Europa.
E oggi? I Serbi continuano a ritenersi l'unico argine contro l'avanzata dell'Islam e i Kossovari (per il 95% musulmani) a rivendicare le loro origini albanesi, nel segno (e nel sogno) della Grande Albania, che comprenda anche il Montenegro, parte della "Fyrom", Former Yugoslavia Republic of Macedonia (guai a chiamarla Macedonia per non urtare la suscettibilità della Grecia) e della Bosnia Erzegovina.
Così la comunità internazionale, sotto l'egida Nato, dalla fine della guerra (1999) continua a mantenere in un territorio grande quanto la nostra Umbria alcune migliaia di militari (Tedeschi, Francesi, Italiani, Americani, Sloveni, Greci, Austriaci, Turchi, Coreani del Sud, Finlandesi, Ungheresi e Portoghesi) impegnati a garantire libertà di movimento e sicurezza per Kos e Koa (alla missione, tesa a legittimare l'indipendenza del Kosovo dalla Serbia, non partecipano, nonostante siano parte della Nato, Spagna e Belgio che con le spinte autonomiste interne - Baschi, Fiamminghi e Valloni - avrebbero qualche imbarazzo a giustificare un intervento a favore di un paese che in maniera arbitraria si è dichiarato indipendente).
A parte la zona a nord del fiume Ibar, che segna una sorta di confine naturale tra le due etnie contendenti, il Kosovo è un grande cantiere in cui si spendono e si disperdono gli aiuti internazionali. Non tutti i cosiddetti aiuti sono disinteressati: le banche (moltissime, considerato il numero di abitanti e degli affari leciti) sono tutte tedesche, così come è totalmente tedesco - Mercedes, Bmw e Volkswagen - il parco macchine della K-For (Kosovo Force), la forza militare internazionale guidata dalla Nato, che ha la missione di ristabilire e mantenere la pace, la libertà di movimento e la sicurezza in Kosovo; le compagnie assicurative sono slovene e austriache; gli Usa stanno investendo nell'area sud-occidentale del Kosovo alla ricerca di petrolio (le compagnie petrolifere della defunta Albright, già segretario di Stato della presidenza Clinton, e del Generale Clarck, ex Capo di Stato Maggiore dell'esercito yankee, hanno acquisito vaste aree per le estrazioni). Gli altri paesi Nato partecipanti alla missione non hanno sinora dimostrato particolari velleità di investimenti per ritorni post bellici.
Dimenticavo l'Italia: noi gli aiuti li regaliamo con donazioni quasi giornaliere a scuole, ospedali, enti locali e polizia kossovara (addirittura un comune dell'Umbria ha ospitato una delegazione del Kosovo per trasmettere il know how in materia di raccolta differenziata dei rifiuti. Si dice che il Kosovo sia pulito solo d'inverno, quando la neve copre tutto).
L'ufficio commerciale della nostra ambasciata (esiste in tutte le ambasciate italiane ed è di rilevantissima importanza) decide le fortune di imprese italiane interessate a fare affari in Kosovo (dopo il 2012 l'ambasciatore italiano fu arrestato per una vicenda corruttiva che riguardava appalti e visti a pagamento, ma questa è un'altra storia).
Per la sua posizione - corridoio naturale tra l'Asia e l'Europa - il Kosovo è teatro di ogni genere di traffici: droga, armi, esseri umani, ecc., ma il mandato della Nato consente di occuparsi unicamente di reati a sfondo razziale o interetnico. Nello scacchiere internazionale il Kosovo è strategico per l'alleanza euro-atlantica, contrapponendosi alla Serbia, notoriamente appoggiata da Cina e Russia.
Il Kosovo non produce nulla, privo com'è di industrie, infrastrutture e servizi. L'agricoltura riesce appena a soddisfare la domanda interna. La disoccupazione supera il 50% della forza abile al lavoro, con un reddito annuo pro-capite che in media non raggiunge i 2 mila euro. Sta cercando di entrare nella Ue (altra fonte di aiuti e finanziamenti), ma per farlo deve dimostrare relazioni di buon vicinato con i paesi confinanti, garantendo il rispetto dei diritti umani e delle minoranze etniche: missione impossibile.
Le enclavi serbe, sparse nella regione in maniera puntiforme, sono meta di razzie e attacchi da parte dei kossovari albanesi. I cimiteri e le chiese ortodosse, le poche rimaste, vengono spesso depredate e profanate, mentre i monasteri (storico e affascinante quello di Decanj) riescono a salvarsi grazie alla protezione dei militari della K-For.
Il Kosovo, autoproclamatosi indipendente dalla Serbia nel 2008, è stato sinora riconosciuto da poco meno di 100 stati. In Europa non lo riconoscono, per le ragioni innanzi accennate, Spagna, Grecia e Belgio. Eccelle per corruzione e arricchimenti illeciti, con una classe politica connivente e spesso collusa con organizzazioni criminali. L'ex premier Hashim Thaçi è finito a processo davanti al tribunale de L'Aia per crimini di guerra e traffico di organi umani: come già accertato processualmente grazie anche all'attività investigativa di un parlamentare elvetico, durante la guerra ai prigionieri serbi venivano espiantati gli organi nella clinica "Medicus" di Pristina, per poi rivenderli in Turchia, Svizzera e Israele (molti testimoni sono stati uccisi o fatti sparire prima del processo).
Il Kosovo continua dunque a vivere grazie agli interventi internazionali, ma quando la missione terminerà cosa accadrà? Il quesito è legittimo e la risposta ritengo sia tutta politica.
L'aspetto religioso della frattura tra Kos e Koa credo sia difficilmente sanabile, mentre sul piano politico, per ragioni di convenienza di entrambi i contendenti, la situazione sembra più fluida.
La Serbia ne fa una questione di principio (non vuole rinunciare a quella che considera una sua regione), mentre il Kosovo rivendica un'autonomia dettata, oltre che da motivi religiosi, anche da ragioni culturali, etniche e linguistiche.
Del resto anche ai tempi della Jugoslavia di Tito il Kosovo godeva di una speciale autonomia, come da noi accade per le regioni a statuto speciale. L'Ue ha già finanziato parte dell'autostrada che collegherà Nis a Salonicco, riagganciandosi al cosiddetto "corridoio 5", che per molti paesi dell'Europa centrale (Germania in testa) rappresenterà uno sbocco nel Mediterraneo e una finestra sul Medio Oriente.
La missione K-For rappresenta una concreta fonte economica per entrambe le popolazioni in disputa. Nelle varie basi militari disseminate in tutto il Kosovo, trovano lavoro alcune centinaia di persone, garantendo così il sostentamento di altrettante famiglie (vengono assunti interpreti, addetti alle lavanderie, manutentori, addetti alle pulizie, ecc., non cuochi: per noi erano gli stessi carabinieri che cucinavano gli alimenti provenienti - tutti obbligatoriamente - dall'Italia).
Permettetemi infine di dedicare due parole ai Carabinieri. Intanto partecipare al rito dell'alzabandiera alla presenza di contingenti stranieri (nella nostra base ospitavamo Polacchi e Austriaci, questi ultimi alle mie dirette dipendenze) assume un significato speciale, con il nostro tricolore che, al di là della retorica, emoziona, facendoti sentire fiero del nostro paese. Ricordo che agli Europei di calcio di quell'anno battemmo la Germania in semifinale: ci scatenammo in sfottò e cori contro i Tedeschi davvero poco eleganti.
Noi carabinieri in Kosovo eravamo - siamo - visti come liberatori, distribuendo cioccolati, merendine e carezze ai bambini e un sorriso ai nostri interlocutori e ciò ci faceva sentire bene.
Anche in Kosovo, nell'area di responsabilità affidata a Msu (Multinational Specialized Units), da sempre comandata da un colonnello dei Carabinieri, il carabiniere rappresenta qualcosa di unico e di esemplare per la gente. Quei gesti di quotidiana carità, lontano da casa e fuori dai nostri confini, assumono un significato davvero speciale. I carabinieri sono speciali nella loro semplicità, operando a favore di chi soffre o ha sofferto per le ferite di una guerra che, come tutte le guerre, non ha nulla di giusto e giustificabile. Serbi e Kosovari ci rispettano e ringraziano per il nostro equilibrio, l'imparzialità, la compostezza e l'umanità che da sempre alberga nel cuore dei carabinieri e dei soldati italiani.
N.d.r.: l'estensore dell'articolo, Giovanni Ferrari, è un Colonnello a riposo dei Carabinieri.
tutti i numeri di EXCALIBUR
VICO SAN LUCIFERO