EXCALIBUR 149 - gennaio 2023
in questo numero

La monarchia nel pensiero di Machiavelli

I principi, fra potere e controllo

di Franco Di Giovanni
<b>Niccolò Machiavelli</b> e la sua opera più conosciuta
Niccolò Machiavelli e la sua opera più conosciuta
Come detto, eccoci arrivati al secondo articolo sul pensiero del grande pensatore fiorentino riguardante i principati, ovvero quanto trattato nella famosissima sua opera "Il Principe".
Per esaminare il pensiero del nostro sui principati, ossia le istituzioni monarchiche, occorre fin da subito precisare che, come per le forme repubblicane di stato, sono in questa opera considerate virtù, in politica, le doti di astuzia e forza.
Il modo più funzionale per conquistare e mantenere il potere, per il principe, è procurarsi sempre l'appoggio popolare, anche contro i grandi che lo avessero messo al potere, perché trattandosi di alleati fuori dalle masse popolari, metterebbero a rischio sempre il suo dominio. E, come dissero i classici, il potere condiviso è potere perso.
Ma con un popolo fidelizzato si riducono i rischi di eventuali colpi di mano da parte dei potenti del luogo, che sarebbero quindi privati di sostegno popolare. Riguardo a un certo uso della forza per garantire o instaurare il proprio dominio, è opportuno usarla il meno possibile, garantendo, al contempo, un vantaggio materiale percepibile anche dai sudditi.
Un uso della forza è preferibile sia esercitato non da mercenari, ma da coscritti o volontari per la causa del luogo, con un territorio che sentono di difendere come il proprio, anche per non acuire troppo una cesura coi sudditi, che potrebbero vedere i mercenari come estranei, anche se fedeli al principe, e non sentirsi protetti da costoro (ma di questo parlerò meglio nel terzo articolo, anche se nel trattato che stiamo prendendo in considerazione ora, è presente un capitolo sui principati fondati sul potere militare, perché entriamo nel merito della strategia anche di guerra).
Il principe che vuole conquistare, mantenere ed estendere la sua egemonia dovrà quindi, in via definitiva, come afferma il nostro, riuscire a farsi temere senza farsi odiare, non opprimendo il suo popolo.
Un esempio è offerto, nell'epoca dello scrittore, da Cesare Borgia, crudele per la presa del potere, se necessario, ma tra i più equi per quanto riguarda la tassazione: temuto ma, infine, amatissimo dai popolani.
Una analisi particolare è dedicata, invece, ai principati ecclesiastici, intangibili sostanzialmente perché fondati sulla fede e basati sulla propagazione del cattolicesimo, che il nostro differenzia da quelli ereditari.
Quelli che sono da molto tempo ereditari e non di presa del potere recente sono più gestibili di altri, ma soggetti come tutti gli altri alla più o meno buona capacità di comando dei principi e alla loro lungimiranza.
Machiavelli crede, come detto, nella forza e nell'astuzia, ragion per cui il sovrano, come ogni buon statista, deve essere addestrato alle armi ed essere anche un gran dissimulatore, per giungere al bene collettivo di una patria italica unificata come è desiderabile per tutte le nazioni, come lui stesso dichiarò nella parte finale del suo libro, ragion per cui anche la fede diventa strumento politico di coesione, se si vuol vivere e sopravvivere: perciò, se necessario, non è contrario al potere del clero.
Suo esempio sono sempre i grandi dell'antichità come Agatocle, tiranno di Siracusa, vissuto nel 317 a.C..
Il suo amico Guicciardini criticava il suo metodo di approccio alla politica, anche se poi lo ritenne nella prassi valido, per via di una certa particolare mutevolezza della politica stessa, per cui, anche se gli esempi tratti dalla storia antica classica sono validi, la storia non si ripete mai esattamente uguale.
Ma questa, come si dice, è un'altra storia.
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