EXCALIBUR 96 - febbraio 2017
in questo numero

Il Medio Oriente e la pesante eredità di Obama

Si è conclusa l'avventura del presidente americano, tra (poche) luci e (molte) ombre

di Angelo Marongiu
Sopra: l'ex Presidente Barak Hussein Obama e l'area mediorientale in cui sempre più potenze, etnie e bande si intrecciano in uno sporco gioco
Sotto: l'ex Segretario di Stato John Forbes Kerry
Il 20 gennaio 2009 si insediò alla Casa Bianca il 44º Presidente degli Stati Uniti d'America. Mai un Presidente fu così atteso, incarnando - primo afroamericano - le attese e le speranze di tutto il mondo. Vi arrivò dopo una campagna elettorale completamente innovativa, con una concezione globale della comunicazione che scardinò tutte le precedenti modalità di contatto con l'elettorato.
L'arrivo di Barak Hussein Obama alla Casa Bianca amplificò le attese che il mondo aveva collegato alla sua figura, attese che addirittura si concretizzarono in un Premio Nobel per la Pace, che, dopo meno di un anno dal suo insediamento, sembrò più un premio alle parole che ai fatti.
Ora il primo Presidente afroamericano ha lasciato la Casa Bianca e il passaggio di consegne non fu mai così traumatico: si passa da un uomo che aveva posto al centro del suo operato una concezione ideale del mondo a un altro che invece pone al centro della sua attenzione la cruda realtà dei fatti.
Obama lascia dopo otto anni un cumulo di promesse mancate. Certo, il suo insediamento aveva coinciso con uno dei periodi più cupi della storia americana: impelagati in una grave e sottovalutata crisi economica dai risvolti sociali preoccupanti; coinvolti in conflitti nell'area mediorientale e asiatica dai quali non si vedeva via d'uscita, con una leadership mondiale non più brillante come in passato. Dopo otto anni di governo è indubbio che la crisi economica americana appare superata: Pil e occupazione sono ritornati a crescere, la criminalità è generalmente diminuita, il benessere e le aspettative di vita hanno un segno positivo.
Però, la sensazione generale più diffusa è quella di una sostanziale amarezza, di una palese disillusione: il sogno che Obama promise di far rinascere, non solo all'America ma a tutto il mondo, non è diventato realtà. Forse il problema sono state proprio le tante aspettative che Obama aveva suscitato e che la realtà della politica, il confronto con la vita reale e le scelte che essa comporta, hanno contribuito a spegnere.
Dopo otto anni ci si è resi conto che Obama non è stato un presidente diverso dagli altri, anzi per certi aspetti è stato peggio degli altri: forse per le aspettative di tutto il mondo, forse per l'enorme credito del quale godeva e delle incredibili opportunità che non è stato in grado di sfruttare, per presunzione e incapacità.
Dopo otto anni l'America è più divisa di prima. I suoi anni sono stati drammatici per gli afroamericani, che hanno visto la loro situazione sociale andare sempre peggio, con i ghetti che dovevano sparire e che invece sono stati sempre più marcatamente evidenti e con un razzismo bianco che - anche se non accresciuto - è certamente più evidente.
Il suo discorso di addio è stato elegantissimo, come le sue campagne elettorali. Ma solo di facciata.
Il suo «Yes, we can. Yes, we did» (Possiamo farlo. L'abbiamo fatto) ha suonato di retorica stantia, buono solo per far inumidire le ciglia di chi giudica il suo operato solo in base alla propria appartenenza politica. Il suo addio - ancora più amaro vista la solenne e inattesa stroncatura dell'erede designata Hillary Clinton - lascia il mondo di sinistra orfano di qualunque punto di riferimento: è rimasto solo Hollande, che non è certo una bella figurina da mettere sull'altare. Da qui l'ostilità precostituita, tipica di questa parte della politica, verso l'avversario pur vittorioso democraticamente. Si aggrappano al fatto che i voti della Clinton superano in numero quelli di Trump, misero pretesto valido solo quando fa comodo.
L'intellighentia mondiale ha già giudicato il suo successore Donald Trump e lo ha condannato ancor prima del suo insediamento, prima ancora di un qualsiasi atto formale. E quindi sono arrivati gli stupidi giudizi da parte di tutte le organizzazioni internazionali, europee e altre, Fondi monetari e via discorrendo: con una mancanza di sensibilità e di senso democratico che in fondo non deve ormai stupire più nessuno. Ma alla fine è con Trump che - per forza - dovranno trattare.
Si sono però ben guardati dal giudicare l'operato di Barak Hussein Obama, forse per la paura di dover ammettere che il mondo che ha lasciato in eredità è ben più pericoloso di quello che aveva ereditato da George W. Bush.
Incensato e adorato ancor prima che avesse fatto qualcosa, adornato da un Premio Nobel ridicolo, Obama ha inanellato una serie di errori e orrori che - se commessi da un non democratico - avrebbero sollevato le masse di tutto il mondo.
La sua politica estera è stata un disastro totale. Ha lasciato marcire il Medio Oriente, andando dietro alle primavere arabe, senza rendersi conto che cercare di sostituire un governo forse non democratico, ma che garantiva stabilità, con un altro qualsiasi, in nome di una presunta volontà popolare, non era certo una visione da statisti. Egitto, Libia e Siria sono stati i fallimenti più clamorosi.
In Egitto la destituzione di Mubarak e l'avvento dei Fratelli Musulmani ha mostrato la cecità di un presunto avvento della democrazia, alla quale Al-Sisi ha posto rimedio.
In Libia, la passività nei confronti di Sarkozy e Cameron e l'accettazione della volontà della Clinton e delle loro iniziative per la liquidazione di Gheddafi hanno portato quel paese, guidato certo da un folkloristico dittatore, in un caos del quale, l'Italia in particolare, sta ancora subendo le conseguenze. Esempi di una macroscopica ignoranza dei meccanismi che guidano il governo di quell'area critica del mondo.
Il necessario ritorno all'antico in Egitto e il perdurante caos in Libia, non hanno comunque insegnato niente a Obama e alla sua amministrazione, perpetuando lo stesso errore con la Siria di Bashar al-Assad. Ostilità immediata alle manovre di al-Assad - tracciando fantomatiche linee rosse da non superare, perennemente disattese e non mantenute - strada libera alle manovre delle monarchie del Golfo Persico e ai finanziatori dell'Isis, appoggio a Erdogan e alla sua Turchia, da sempre ostile alla Siria, nella speranza di arrivare a una spartizione del paese tra fazioni e stati amici degli Usa. L'intervento militare della Russia di Putin gli ha scombinato i calcoli e gli Stati Uniti hanno perso l'iniziativa e la credibilità. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un'area perennemente instabile, con Siriani, Turchi, Russi, Americani, Curdi, bande ribelli che sparano contro tutti e la nascita dell'Isis - mostro partorito da questa confusione, dall'idiozia diplomatica e da una visione idilliaca del mondo che solo Obama poteva avere.
Il risultato è quello di aver fatto rivivere la presenza della Russia in Medio Oriente, con Putin che praticamente ha "blindato" la Siria di al-Assad e appare ora come l'unico personaggio credibile dell'area.
I rapporti con Israele - unica democrazia in quell'area esplosiva - sono arrivati al minimo storico. Incomprensioni, dispetti infantili, totale cecità nel gestire i rapporti tra le parti (anche Obama ha perseverato nella inutile routine di chiedere concessioni a Israele e di non chiedere nulla all'altra parte: è in buona compagnia perché altre istituzioni compresa quella religiosa fanno stupidamente altrettanto). Si è arrivati così alla inaudita decisone - presa addirittura a mandato quasi concluso - di non opporre il veto all'ennesima mozione anti israeliana del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Con sommo gaudio di Hamas - che ha solennemente ringraziato - fulgido esempio di democrazia in quell'area.
Il Medio Oriente è nel destino di Obama. La sua parabola - che allora si ipotizzava ascendente - cominciò proprio con il discorso tenuto al Cairo il 4 giugno 2009 con una inusuale apertura di credito verso quel mondo, testimonianza di una visione messianica del suo mandato e di una mancanza assoluta di cautela politica (vedi Excalibur n. 55, luglio 2009, "I gatti di Obama").
Forse le aspettative erano troppo grandi. Le due situazioni delicate come quelle dell'Iraq e dell'Afghanistan sono state gestite in maniera opposta: ritiro immediato delle truppe americane dall'Iraq e prolungamento della permanenza americana in Afghanistan. Con un bilancio, in entrambi i casi, disastroso.
L'esercito iracheno, addestrato dagli Usa, si è dissolto di fronte all'Isis, e solo ora sta recuperando posizioni grazie all'appoggio aereo dell'occidente e alle milizie popolari addestrate e dirette dell'Iran (altro ritorno in grande stile!).
In Afghanistan i Talebani - dopo migliaia di vite perdute, anche di soldati occidentali - sono sempre più forti e la violenza continua a essere la padrona del paese. Secondo i dati Onu, il 2016 ha fatto segnare il record di civili morti (con migliaia di donne e bambini) a causa degli atti di violenza e terrorismo.
Gli unici successi, chiamiamoli così - per altro pagati a caro prezzo - restano quelli con l'Iran e con l'Arabia Saudita. Il raggiungimento dell'accordo con l'Iran sul programma nucleare nel 2015 ha sopito un pericoloso focolaio di tensione e ha riportato sulla scena diplomatica mondiale un paese certamente importante che, nel bene e nel male, influenza tutta la parte sciita del Medio Oriente. Accordo sul nucleare che però è solo di facciata, non essendo più stato implementato dei necessari protocolli di controllo della sua attuazione. Il prezzo pagato è il gelo nei rapporti con Israele, cosa forse che comunque ha lasciato indifferente Obama. e all'attacco che - nel marzo del 2015 - Bibi Netanyahu gli sferrò addirittura al Congresso, ha risposto con il gelo e con la vendetta ultima dell'astensione sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2016.
Ha dovuto pagare pedaggio anche con l'Arabia Saudita, altro paese che ha criticato l'accordo con l'Iran. Obama, forse anche per favorire la presunta e sperata futura presidenza della Clinton, ha appoggiato i Sauditi nelle loro richieste, chiudendo gli occhi sulle loro azioni continue di promozione del radicalismo islamico e del terrorismo sunnita. Ed ha venduto, in particolare ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, più del doppio delle armi che furono vendute durante la presidenza Bush.
Altri scenari sono altrettanto disastrosi. In Europa, dal riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo nel 2008, alla crisi ucraina con un appoggio aprioristico a un governo non certo democratico, dall'allargamento della Nato a est, in barba agli accordi precedentemente presi dagli Stati Uniti con Mosca, fino alla crisi profonda con Putin, nata da una personale avversione per il leader russo più che da oggettive questioni di contrasto, certamente sanabili.
Politica ottusa che ha creato non pochi problemi anche a noi. La lotta con la Russia aveva il solo scopo di evitare una più stretta alleanza di essa con l'Europa, trasformando quindi l'Unione Europea in una potenza pericolosa per i disegni egemonici americani. Quindi la destabilizzazione dell'Ucraina e il dispiegamento di truppe Nato in Lituania, oltre alle stupide "sanzioni" contro la Russia, sono la diretta conseguenza di questa avversione personale.
Ripercussioni economiche, milioni di profughi pronti ad arrivare in Europa e l'arrivo del terrorismo jihadista anche in casa nostra sono l'eredità lasciataci da Obama. Quello che ha lasciato la Casa Bianca è un presidente sconfitto. Non solo perché non è riuscito a lasciare il paese nelle mani di un altro democratico (transizione avvenuta tra i democratici in tempi più o meno recenti solo tra Roosevelt e Truman, tralasciando Kennedy e Johnson), ma soprattutto perché non lascia alcuna eredità significativa.
È cambiato il vento in tutto il mondo e la retorica obamiana non ha alcuna presa, se non tra i salotti radical chic di casa nostra.
Il trattato con l'Iran (demagogico e inutile) e la riapertura dei rapporti con Cuba (di assoluta irrilevanza nello scacchiere mondiale) sono le uniche medagliette di una presidenza annunciata con clamori di fanfara e conclusasi senza rimpianti.
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