EXCALIBUR 120 - ottobre 2020
in questo numero

Credere, disobbedire, combattere

L'originale motto del M.M. Giovanni Sardu di Gonnosfanadiga, in un drammatico episodio della 2ª Guerra Mondiale

di Angelo Abis
a sinistra <b>Giovanni Sardu</b> in divisa da Maresciallo di Marina, a destra retro di<br>una fotografia
Sopra: Giovanni Sardu in divisa da Maresciallo di Marina e retro di
una fotografia
Sotto: postazioni della batteria con Sardu sempre al centro
postazioni della batteria con Sardu sempre al centro
postazioni della batteria con Sardu sempre al centro
Sappiamo tutti il perché della sconfitta dell'Italia nella Seconda Guerra Mondiale, al pari della Germania e del Giappone.
C'è però una cosa che ci distinse dai nostri ex alleati: la totale insipienza, salvo pochissime eccezioni, degli alti comandi delle forze armate, a fronte di un comportamento ammirevole dei gradi inferiori e delle truppe.
Ciò avvenne in maniera ancora più eclatante nella marina militare, indubbiamente l'arma che nel 1940, soprattutto dopo la resa della Francia, si trovò ad avere una assoluta predominanza sia quantitativa che qualitativa nel Mediterraneo. Malgrado ciò Supermarina (definizione dell'alto comando della flotta) adottò una strategia assolutamente timida e rinunciataria nei confronti della flotta inglese, affrontando pochissimi combattimenti e per giunta con risultati deludenti. Le grandi unità furono tenute alla fonda nelle basi di La Spezia e Taranto per tutta la durata della guerra.
Questo non impedì, peraltro, che un certo numero di antiquati aerei inglesi, nel 1941, mettesse fuori combattimento mezza flotta a Taranto. Ma la cosa più ignobile fu che, dopo essersi rifiutata di affrontare gli Alleati nel corso dello sbarco in Sicilia e a Salerno adducendo la scarsità di riserve di nafta, una volta comunicato l'armistizio dell'8 settembre tutte le nostre navi uscirono dalle proprie basi per recarsi in pompa magna a Malta, contravvenendo a un codice d'onore di tutte le marine del mondo, che impone, in caso di resa, l'affondamento delle proprie navi. È in questo contesto che parliamo di un valoroso sotto ufficiale di marina sardo: Giovanni Sardu.
Sardu nasce a Gonnosfanadiga (nell'allora Provincia di Cagliari) il 9 giugno del 1909 da una famiglia di agricoltori. I genitori decidono di farlo studiare nell'unica scuola superiore allora accessibile per i Sardi non ricchi: il seminario. Ma il ragazzo è un po' troppo irrequieto e ciarliero per cui viene gentilmente rispedito a casa. Non si perde d'animo e sceglie l'altra strada, obbligata per chi in qualche modo, allora, voleva mutare il proprio stato sociale: arruolarsi nei corpi militari dello stato.
Sardu optò per la marina militare. In tale veste, negli anni Trenta, partecipa alle principali imprese belliche del tempo: la riconquista della Libia e il conflitto in Africa Orientale, guadagnandosi il grado di sottocapo di seconda classe. Nel 1938 viene destinato all'isola di Rodi, facente parte del Dodecaneso che l'Italia aveva strappato all'impero Ottomano con la guerra di Libia del 1911. Nell'isola del Mediterraneo orientale incomincia pure a mettere casa fidanzandosi con una ragazza del posto, Fiorenza, che diventerà madre dei suoi figli.
Lo scoppio della guerra lo coglie con l'incarico di capo cannoniere della prima batteria antiaerea (quella che dava il là alle altre batterie dell'isola, dipendenti dal comando marina, in caso di incursione nemica. La batteria era chiamata "Bianco" e si trovava in località Kremosti.
Era dotata di tre cannoni da 120/45, uno da 76/17 e di un certo numero di mitragliatrici pesanti antiaeree. La consegna era che la batteria non poteva aprire il fuoco se non dietro ordine diretto del responsabile del comandante della marina di Rodi, capitano di fregata Adriano Arcangioli. All'alba del 4 settembre del 1940 due formazioni di bombardieri inglesi si presentarono con tutta tranquillità sul cielo di Rodi iniziando la loro azione tesa soprattutto a colpire gli aeroporti dell'isola. Tutte le batterie antiaeree erano in stato di allarme e tutti i marinai erano ai propri pezzi pronti ad aprire il fuoco.
Ma l'ordine non arrivava. Incuria? Sabotaggio? Intesa col nemico? Ai posteri l'ardua sentenza. Fatto sta che all'ennesimo passaggio di un aereo sopra la sua postazione, Sardu non si trattenne: aprì il fuoco e abbattè il velivolo. Immediatamente tutte le altre batterie spararono contemporaneamente.
Fu una strage: 7 aerei abbattuti, un numero imprecisato danneggiati e tutto il resto in fuga. A terra furono catturati 8 avieri inglesi. Cessata l'incursione arriva a Sardu la telefonata del suo comandante: come si era permesso di aprire il fuoco senza la sua autorizzazione? E giù addirittura la minaccia di deferimento alla corte marziale.
Successivamente il governatore del Dodecaneso, il generale quadrunviro della marcia su Roma Cesare Maria De Vecchi, si recò in visita alla batteria accompagnato dal comandante della marina per congratularsi con i marinai.
A fronte dell'elogio del governatore il comandante di marina esclama: «Abbiamo fatto quello che abbiamo potuto...».
Al che Sardu se avesse potuto gli avrebbe sparato addosso. Il bollettino di guerra n. 90 del 6 settembre del 1940 così riportava l'episodio: «Forze navali e aeree nemiche hanno tentato nelle prime ore dell'alba di ieri un attacco alle nostre basi aeree e navali dell'Egeo. L'attacco è stato condotto da due formazioni aeree dirette sui campi di Gaddura e Marizza, ove venivano colpiti due nostri apparecchi al suolo [...] l'intervento della nostra caccia e delle batterie c.a. ha in breve respinto l'attacco, abbattendo sette velivoli nemici. Gli equipaggi di tre apparecchi, composti complessivamente di 8 persone, sono stati catturati
Sardu assolve i suoi compiti di capo cannoniere con assoluto impegno e diligenza fino all'11 settembre del '43, allorché l'ammiraglio Campioni, governatore dell'isola in quel frangente, non firmò la resa con i Tedeschi. Nel gennaio del '43 Sardu sposò Fiorenza, ma dopo qualche mese, a seguito delle disposizioni del governatorato sull'esodo dei civili, la sposa dovette trasferirsi in Italia presso una famiglia amica di Lecce.
Sardu, nel mentre, assolse diligentemente i suoi compiti di capo cannoniere. Il suo ultimo combattimento lo ebbe il 10 settembre del '43, allorché la batteria "Bianco" aprì il fuoco contro mezzi tedeschi che si accingevano a occupare l'aeroporto di Manizza, colpendone un certo numero, ma il fuoco di reazione tedesco mise praticamente fuori uso la batteria costringendo i marinai ad abbandonarla.
La resa dell'11 settembre creò il caos non solo fra i 32 mila militari di stanza a Rodi, che di fatto si ritrovarono prigionieri del loro ex alleato, ma fra gli stessi Tedeschi, impossibilitati a custodire e gestire un così gran numero di prigionieri, per cui dovettero servirsi dell'apparato civile (carabinieri compresi) e di quei militari che erano rimasti al proprio posto o che erano diventati collaborazionisti o che dopo qualche mese avrebbero aderito alla Rsi.
In questo contesto e per un periodo di tempo che va dall'11 settembre 1943 a metà aprile del 1944, Sardu fu un singolare uccel di bosco. Scartata l'ipotesi di consegnarsi ai Tedeschi o di darsi alla macchia per combatterli, respinta l'ipotesi di diventare un collaborazionista o di aderire alla Rsi, anche perché Salò o non Salò a Rodi comandavano solo i Tedeschi, Sardu divenne un latitante ricercato, ma che circolava con documenti rilasciatigli dai collaborazionisti italiani, con i quali in alcune occasioni è ospite a pranzo insieme ai Tedeschi.
Con tutta probabilità Sardu tentò di fuggire, come del resto fecero alcuni suoi commilitoni, nella vicinissima Turchia. La cosa non gli riuscì, per cui a un certo punto, stanco della latitanza, scelse la strada meno pericolosa (si fa per dire!) per tirarsi fuori dai guai: fu più o meno costretto ad arruolarsi nell'organizzazione Todt, l'impresa di costruzioni che operava sotto la direzione dei comandi tedeschi.
Lo status di Sardu cessava così di essere quello di un prigioniero di guerra in fuga, per diventare quello di un lavoratore straniero al servizio delle imprese tedesche. Fu preso in organico dalla ditta Grum-Beffing con destinazione lavoro nella città di Magdeurg in Sassonia. Il 18 aprile del '44, nell'aeroporto di Calato venne caricato su un aereo da trasporto Junkers e scaricato nell'aeroporto di Calamata vicino ad Atene.
Venne poi trasferito in Germania in un campo raccolta. Da qui, in quanto dipendente delle ditte tedesche, con altri lavoratori italiani e stranieri caricato su un treno merci e inviato a Magdeburg. Da quel momento, sino al 1 aprile del '45, giorno in cui passò alle dipendenze degli Americani, fu un continuo peregrinare nei piccoli e grandi centri della Germania (il 20 dicembre del '44 è a Colonia), dove, più che lavorare, il tempo veniva impiegato a sfuggire ai continui bombardamenti dell'aviazione alleata e a procurarsi roba da mangiare.
Dal 1 aprile del '45 fu preso in carico dagli Americani e successivamente dagli Inglesi, ma, a quanto pare, non è che il trattamento, almeno i primi tempi, fosse migliore di quello dei Tedeschi.
Finalmente nel luglio del '45 il rientro in Italia e, prelevata la famiglia a Lecce, rientra in Sardegna e a Cagliari riprende servizio in marina.
E a questo punto ebbe una delle sue solite impennate. Richiesto di imbarcarsi sull'incrociatore Eugenio di Savoia per consegnarlo come preda bellica alla Grecia, ebbe un moto di ribellione e, pur di non obbedire all'ordine, preferisce congedarsi dalla marina militare.
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