EXCALIBUR 158 - settembre 2023
in questo numero

Debole, incredibilmente lontano: Afghanistan

Due anni da quella precipitosa fuga: la scomparsa di metà della popolazione

di Angelo Marongiu
la silenziosa e inutile protesta delle donne afghane
Sopra: la silenziosa e inutile protesta delle donne afghane
Sotto: la splendida immagine della fotografa yemenita Boushra
Almutawakel
che mostra la progressiva scomparsa delle donne
afghane dalla scena del mondo
la splendida immagine della fotografa yemenita <b>Boushra Almutawakel</b> che mostra la progressiva scomparsa delle donne afghane dalla scena del mondo
"Molto forte, incredibilmente vicino" è il titolo di un libro di Jonathan Safran Foer che racconta la disperata ricerca da parte di un bambino alle prese con il significato nascosto nei messaggi che il padre, morto nel crollo delle Torri Gemelle, gli ha lasciato.
Quell'ormai lontano 11 settembre 2001 ha certamente colpito gli Stati Uniti molto vicino, incredibilmente vicino: da quella data sono cominciate le sue avventure contro un mondo che allora sembrava molto lontano. Ha inizio così la sua ventennale lotta con quell'Afghanistan, da sempre "il cuore nero" dell'Asia, con alterne vicende profumate di vittoria e amarezza di sconfitte.
La conclusione è nota: il 15 agosto 2021, dopo oltre 2.400 morti e circa 20.000 feriti, precipitosamente Joe Biden, senza informare i suoi alleati presenti nel campo, ha ritirato le sue truppe, come già avevano fatto Inglesi e Sovietici, ed è ritornato a casa.
«Eravamo lì per combattere il terrorismo, non per costruire una nazione», che suona come un patetico alibi.
Ora l'Afghanistan è ritornato lontano, incredibilmente lontano, anche se non più idolatrato, come una volta, dagli inguaribili romantici occidentali.
È difficile stendere un bilancio dopo due anni, anche perché le notizie sono ben poche e il metro di misura è quello di chi vive in una ben tranquilla nazione occidentale.
I talebani - che in realtà non erano mai andati via - sono tornati a essere i padroni dell'Afghanistan e non sono mai cambiati.
Qualcuno descrive l'attuale situazione di quel paese come un felice ritorno al Medioevo: «Le politiche imposte hanno portato alla sistematica soppressione di una moltitudine di diritti umani, compresi i diritti all'istruzione, al lavoro, alla libertà di espressione, riunione e associazione. Ci sono i soliti rituali di sempre: esecuzioni sommarie, sparizioni improvvise, detenzione senza processo e torture sistematiche». Questa la voce delle Nazioni Unite.
Le prime vittime sono come sempre le donne: risospinte ai margini estremi della società, fuori dalle aule scolastiche e dal mondo del lavoro, imprigionate nel loro burqa.
La povertà è la nuvola che oscura la vita di circa 30 milioni di Afghani, su una popolazione di 40 milioni di abitanti, e a farne le spese sono soprattutto i bambini, circa 15 milioni.
Sono passati 24 mesi e l'Emirato è ancora lì e non sembra certo vicino il crollo come molti speravano dopo la definizione delle sanzioni. Non è riconosciuto a livello internazionale e attraversa una delle più spaventose crisi umanitarie, economiche e alimentari, con il 70% della popolazione che dipende dagli aiuti umanitari che la comunità internazionale continua a fornire.
C'è la pace, dice qualcuno, intesa come assenza di guerra. Ma alcune donne afghane hanno dichiarato che «la pace non significa assenza di guerra. Pace significa avere il diritto di essere sé stessi, il diritto di scegliere»
Da questo punto di vista l'Afghanistan è diventato un cimitero di massa delle ambizioni, dei sogni e del potenziale delle donne delle ragazze afghane.
Perché poi, nelle scarse immagini ben calibrate che arrivano da quel paese incredibilmente lontano, si vedono città con un traffico ordinato e regolare, moschee e ritrovi con persone sorridenti e tranquille: ma hanno tutte la barba, non si vedono donne. Sono sparite.
«Prima le donne erano costrette a lavorare, a faticare, ma ora sono tenute a casa e trattate come delle regine»: sono le parole dell'imam di Kandahar, predicatore da oltre un decennio.
Il tutto è avvenuto con una gradualità chirurgica.
Si comincia nel settembre 2021 con il divieto, per ragioni di sicurezza, di frequenza delle lezioni femminili nelle scuole di secondo grado. Nel novembre 2021 scatta il divieto di fare viaggi superiori a 72 chilometri senza essere accompagnate da un parente maschio. Nel maggio 2022 viene emesso un "codice di abbigliamento" che stabilisce che le donne non troppo anziane o giovani devono coprirsi integralmente il viso, a esclusione degli occhi.
Nel novembre 2022 il portavoce del Ministero per la promozione della virtù ha annunciato che alle donne era stato interdetto l'accesso ai parchi e ai giardini pubblici, nonché a piscine, palestre e bagni pubblici. Tutto ciò in conformità alla Sharia, la legge islamica.
Infine, e siamo al dicembre 2022, è stata sospesa l'istruzione femminile in tutte le università pubbliche e private. Vietate anche le università all'estero in paesi come l'Arabia Saudita.
Se i numeri hanno una qualche importanza: nel 2001, all'inizio del primo emirato talebano, le donne in procinto di laurearsi erano 5.000, nel 2021 erano oltre 100.000. Ora sono zero.
Successivamente è arrivato il divieto per le donne di prestare qualunque tipo di lavoro in organizzazioni non governative, locali e internazionali, compresa l'Onu. In tal modo le Nazioni Unite non sono in grado di sapere se gli aiuti umanitari arrivano anche alla popolazione femminile.
La ciliegina nel luglio 2023, con la chiusura di parrucchieri e saloni di bellezza, che non erano solo un luogo nel quale rendersi più belle, ma nel quale potevano incontrarsi e parlare lontano dagli uomini e dai talebani.
Se, come dice un proverbio cinese "le donne sostengono l'altra metà del cielo", quella parte è definitivamente crollata e senza stelle.
Più di tante parole, riproponiamo la sequenza fotografica della yemenita Boushra Almutawakel, già pubblicata su Excalibur n. 132 del settembre 2021 (Afghanistan, "cuore di tenebra" dell'Asia), che mostra la progressiva sparizione di ogni colore femminile, fino al buio assoluto.
Forse la popolazione resiste, non lo sappiamo, ma essa è indubbiamente schiacciata dalle politiche autoritarie delle autorità di fatto, con apartheid di genere e repressione di ogni dissenso, ma dall'altra parte c'è il totale disinteresse e il silenzio della comunità internazionale, impegnata su altri fronti che sembrano oscurare tutto il resto del mondo.
Forse servirebbe mettere in moto una diplomazia di piccoli passi, anche se l'interlocutore non appare ben definito.
In effetti non è ancora chiara, dopo due anni, l'architettura del potere statuale e una divisione chiara tra il movimento dei talebani, che si muove in una dinamica di gruppi di influenza e feudi territoriali, e dall'altra parte il nascente Emirato islamico con le sue pseudo articolazioni ministeriali e amministrative.
Qualcuno ipotizza che - tempo 12-24 mesi - questa indeterminatezza di ruoli e prospettive possa portare a scontri armati, ma l'Afghanistan è un paese nel quale è difficile indovinare il futuro.
L'Afghanistan è complessivamente solido dal punto di vista finanziario, con un'autosufficienza in grado di gestire le minime aspettative e di resistere alle pressioni (e ai ricatti) degli aiuti e delle sanzioni occidentali. I soldi gli arrivano dagli Stati del Golfo Persico e naturalmente dalla Cina, oltre che dal commercio illegale della droga, imponendo tasse ai coltivatori di papavero e ai produttori di oppio, nonché tasse nelle aree che controllano.
È in grado di sopravvivere, non certo di vivere, tanto meno di prosperare.
Le scelte in quel paese sono dettate da una miscela nella quale si agitano ideologia, interessi pragmatici, rivendicazione orgogliosa della propria sovranità.
È una guerra delle idee ("fekri jagra") in corso già prima dell'arrivo degli occidentali, nella quale era prioritario associare al monopolio della violenza anche il monopolio dell'istruzione.
Il peso di questa crisi umanitaria innanzitutto, ma anche la mancanza di coraggio e creatività politica della diplomazia occidentale, rende problematico qualunque disegno sul futuro del paese. Al di là di uno sterile scontro politico e discussioni ridicole su bilancio e responsabilità del ritiro, l'unica cosa certa è la riproposizione delle sanzioni e l'uso della leva economica per ottenere concessioni.
Quindi restano ancora fermi i 7 miliardi di dollari di riserve afghane depositate alla Federal Reserve di New York e anche gli altri 2,5 miliardi di dollari depositati in altre banche soprattutto europee.
Continua quindi una guerra economica strisciante quasi alla ricerca di una vittoria da contrapporre alla sconfitta militare.
Non è la strada giusta, visti i risultati raggiunti finora, e ci sarebbe bisogno di un cambiamento radicale di strategia a evitare un'ulteriore spinta del regime verso l'isolamento e la radicalizzazione.
Ma ogni voce che proviene da quel paese è debole, incredibilmente lontana. Quasi un silenzio.

P.S.: per fortuna ogni tanto arrivano notizie positive, di quelle che allargano il cuore.
Non sapevo dell'esistenza del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite: è il terzo organo per importanza e ha come competenza principale quella sulle relazioni e le questioni internazionali economiche, sociali, culturali, educative.
È composto da 57 membri e nei giorni di metà agosto ha votato una risoluzione di condanna nei confronti di uno Stato poiché esso Stato costituisce un "grave ostacolo" per le donne.
Un ingenuo pensa all'Iran che bastona le donne senza velo o alla Russia che imprigiona le manifestanti contro la guerra o alla Mauritania dove lo schiavismo è soprattutto femminile. Oppure all'Afghanistan.
Niente di tutto ciò: lo stato condannato è Israele e le donne per le quali lo Stato è "un grave ostacolo" sono quelle palestinesi.
La risoluzione di condanna è stata approvata con una maggioranza di 37 voti: la nostra Italia, con indomito coraggio a dimostrare che i governi cambiano ma il coraggio delle proprie idee, se si hanno, non si compra al market, ha votato a favore della risoluzione di condanna.
Tutto cambia perché nulla cambi.
Sursum corda.
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