EXCALIBUR 160 - ottobre 2023
in questo numero

Israele: incertezza continua (da Excalibur 109)

Dopo due elezioni in un anno, non si conosce ancora il futuro

di Angelo Marongiu
<b>Lieberman, Netanyahu e Gantz</b>:<br>la futura grande coalizione?
Lieberman, Netanyahu e Gantz:
la futura grande coalizione?
Quel che si temeva potesse avvenire, si è puntualmente verificato: anche la seconda tornata elettorale del 2019 non ha dato la maggioranza sicura a nessuna delle possibili coalizioni in lista.
Kahol Lavan, di Blu e Bianco, un partito che si può definire di centro, capeggiato dall'ex generale Benny Gantz ha ottenuto il 25,8% delle preferenze con 32 seggi; il Likud, conservatore, capeggiato da Benjamin Netanyahu, ha ottenuto 31 seggi; la Joint List (Lega araba), che si può definire di sinistra, capeggiata da Ayman Odeh, ha ottenuto 13 seggi; Shas, il partito religioso, ne ha ottenuto 9; Yisrael Beitenu, destra, guidato da Avigdor Lieberman, ha ottenuto 9 seggi; seguono altri partiti, fino ad arrivare al totale della composizione della Knesset di 120 parlamentari.
Il numero fatidico, quindi, per poter governare, è di 61: la coalizione di Gantz ne ha potenzialmente 57, quella di Netanyahu invece 56. A questo punto iniziano i problemi.
Per il Presidente dello stato, Reuven Rivlin, una terza elezione «è disgustosa: il popolo israeliano vuole un governo stabile e un governo non può essere tale se non ne fanno parte entrambi i grandi partiti».
Quindi traspare la sua intenzione di premere per un governo di coalizione che comprenda sia il Blu e Bianco di Gantz che il Likud di Netanyahu. A parer mio questa è l'unica soluzione praticabile, magari con un'alternanza dei due per il premierato.
Gantz non ha respinto quest'ipotesi, ma a una condizione: che Netanyahu si sfili e lasci il posto a Gideon Saar, ex ministro dell'interno. Anche un'eventuale coalizione Likud e Yisrael Beitenu di Lieberman (più altri partiti religiosi) vedrebbe da parte di Lieberman sia una chiusura nei confronti di Netanyahu sia soprattutto la netta chiusura verso i partiti religiosi.
Il tempo stringe: il 25 settembre il Presidente (dopo che avrà avuto dalla Commissione elettorale centrale i risultati definitivi delle elezioni) comincia le consultazioni ed entro il 2 ottobre deve concluderle e dare il mandato; il prescelto ha a disposizione 28 giorni prima del voto di fiducia.
Proprio il 2 ottobre Bibi sarà sentito dai giudici per una eventuale incriminazione che potrà eventualmente essere evitata solo nel caso si trovi a presiedere un nuovo governo.
Nell'incontro per la celebrazione dell'anniversario della morte di Shimon Peres una foto ritrae i tre, Revlin, Netanyahu e Gantz che sorridenti (ma non troppo) si stringono le mani. Vedremo, anche se ogni soluzione appare in salita: troppi veti incrociati e chiusure pregiudiziali.
Anche in Italia c'erano chiusure insormontabili, poi sappiamo come è andata a finire...
Netanyahu ha perso le elezioni ma non è uno sconfitto. Gli va riconosciuto il merito - nei tanti anni di premierato, un record strappato a Ben Gurion - di aver portato Israele in una nuova fase della sua storia. Oggi Israele è una nazione all'avanguardia nella ricerca e nello sviluppo di innovative tecnologie, soprattutto per quanto riguarda l'agricoltura (in particolare i trattamenti dell'acqua) e le applicazioni in campo militare (basta pensare ai droni).
Non mancano ovviamente i punti dolenti in una nazione multietnica, multireligiosa e variegata come Israele: squilibri tra ricchi e poveri, contrasto tra un laicismo della maggioranza degli Israeliani e la forza (non declinante) dei movimenti religiosi.
Un altro punto che ha caratterizzato queste elezioni è il "risveglio" degli Arabi di Israele: sono 1,4 milioni, discendenti dai Palestinesi che nel 1948 scelsero di restare dentro i confini disegnati dall'Onu. Concentrati soprattutto in Galilea e a Tel Aviv, sono andati a votare il 60% degli aventi diritto (contro il 48% delle precedenti elezioni) e hanno portato in Parlamento 13 deputati della "Lista araba unita".
Questa partecipazione sembra indicare un maggior interesse degli Arabi per quello che hanno scelto essere il loro Stato e quindi un passo di speranza per un diverso rapporto tra le molte popolazioni e religioni di Israele.
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