EXCALIBUR 124 - gennaio 2021
in questo numero

Quel che resta dell'Italia

Abbiamo smarrito il senso dello Stato e la nostra dignità internazionale

di Angelo Marongiu
la 'grandeur' dell'Italia
Sopra: la "grandeur" dell'Italia
Sotto: la nostra "eroina" Silvia Romano
la nostra 'eroina' <b>Silvia Romano</b>
A volte ci sono immagini più eloquenti di tante parole.
La foto dei nostri baldi rappresentanti dello Stato italiano (Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri) - scattata in occasione del rilascio dei nostri 18 pescatori - ritratti insieme al mandante e regista del sequestro, mostra eloquentemente il punto più basso della nostra credibilità internazionale.
I nostri due rappresentanti sfilano con la mascherina d'ordinanza (quanto mai opportuna per mascherare il loro rossore, se ne sono ancora capaci): Conte con pochette rigorosamente allineata, ciuffo leggermente mosso, manica sinistra della giacca un poco più corta per poter consultare agevolmente l'orologio (che raramente segna l'ora esatta); Di Maio è un poco più indietro come da protocollo, mascherina di altro colore per poter dire «quello sono io!». E, dietro loro, variopinta pletora di dignitari, con mascherina o senza, e umanità varia.
Dall'altra parte il generale Haftar, ovviamente senza mascherina (a Roma direbbero «e tanto so' bbono io!») e altri impennacchiati con mostrine e galloni.
Non si vede Rocco Casalino (ma cosa è andato a fare?) impegnato forse in altre cose.
Ecco, questa è l'Italia, non so se sesta o settima potenza industriale del mondo; dall'altra parte un qualunque Khalifa Haftar, che, anche se controlla l'est della Libia, sul piano internazionale non è riconosciuto da alcuno e gode di copertura politica da parte della Francia, dell'Egitto, dell'Arabia Saudita e degli Emirati solo per questioni di opportunità strategica ed economica.
I nostri pescatori di Mazara del Vallo sono stati liberati dopo 108 giorni di segregazione a Bengasi, sequestrati perché rei di aver violato le acque territoriali, pescando all'interno di quella che i libici ritengono essere un'area di loro pertinenza in base a una convenzione unilaterale di Gheddafi che estese la Zee (Zona Economica Esclusiva) da 12 a 74 miglia, alla faccia di qualunque convenzione internazionale.
Una settimana prima di questo incontro una nave con equipaggio turco è stata rilasciata dalle stesse milizie dopo cinque giorni: Erdogan aveva solo minacciato di usare la forza. E questo è bastato. Nessuna processione penitenziale.
La differenza tra il nostro governo e la diplomazia di un paese serio sta proprio nel modo in cui queste crisi vengono affrontate e risolte: occorre usare discrezione, tatto e diplomazia. Noi per oltre tre mesi abbiamo usato Facebook e Twitter per esprimere la nostra solidarietà nei confronti dei pescatori e il nostro sdegno verso i sequestratori. E tutto pubblicamente, a uso e consumo della politichetta da quattro soldi che ci contraddistingue.
Alla fine tutte le cancellerie del mondo hanno assistito, qualcuna sicuramente compiaciuta, alla triste passerella del nostro governo che rendeva ai sequestratori un reverente omaggio.
Haftar ha avuto il riconoscimento che cercava, di nuovo attore di peso (anche se per un giorno) nello scenario libico e ulteriormente soddisfatto nei confronti di chi, tre mesi fa, lo aveva snobbato.
Occorre infatti ricordare che nello scorso mese di settembre il nostro Ministro degli Esteri si trovava in Libia, prima a Tripoli e poi in Cirenaica. Qui aveva ritenuto più opportuno incontrare il Presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, ritenuto «l'uomo nuovo della Cirenaica» e non il generale Haftar. Una scelta forse giusta, ma un affronto inaccettabile per Haftar e puntuale è arrivata la "riparazione".
Ci si chiede ora quale sia stata la contropartita. Solo la parata mediatica, un inutile incontro con Conte e Di Maio? O c'è dell'altro? Magari un po' di soldi per mettere in pericolo altre vite umane. O magari, ma non subito, il rilascio dei "quattro calciatori" di Haftar, condannati per tratta di esseri umani e per la morte di 49 migranti nella stiva dei barconi che guidavano. Ma questo forse non lo sapremo mai.
E poi ormai siamo diventati degli specialisti in brutte figure internazionali.
Basta ricordare lo spettacolo indecoroso messo in piedi in occasione del ritorno di Silvia Romano. Prima abbiamo pagato milioni ai terroristi islamici di al Shabaab, affiliati ad al Qaeda e tra i più sanguinari autori di stragi e sequestri in Africa. Anche in questo caso una gran parata mediatica all'aeroporto di Ciampino per accogliere la Romano che scendeva dall'aereo ricoperta dalla testa ai piedi con un lenzuolo verde, la tunica indossata dalle donne somale islamizzate. L'immagine della ragazza convertita all'islam durante la prigionia, che indossava un giubbotto con le insegne dell'esercito turco, diffusa poco prima, dava immediato il segnale dei veri artefici della liberazione. Di nostro c'erano soltanto i soldi elargiti ai macellai.
In quel caso la Romano e ora i pescatori: l'ennesima capitolazione di un paese che non sa tenere la schiena diritta: l'ennesima capitolazione che mette ancora più a rischio tutti gli Italiani che per lavoro o per turismo si trovano all'estero. L'Italia? È quella che paga e si inginocchia. Qualcuno si chiede se esistevano delle alternative per riportare a casa i 18 pescatori.
Innanzitutto l'Italia sulla carta ha la flotta più forte del Mediterraneo, una parte della quale è schierata davanti alla Libia. Era sufficiente far partire un elicottero che avrebbe avuto il tempo, con rischio minimo, di impedire il sequestro dei due pescherecci (in verità non so se con questo Ministro degli Esteri le regole d'ingaggio prevedano prima di ogni intervento una consultazione sulla piattaforma Rousseau).
Poi eravamo a conoscenza del luogo nel quale erano rinchiusi gli ostaggi (la palazzina dell'amministrazione portuale di Bengasi): forse sarebbe stata sufficiente una minaccia, una semplice dichiarazione che chiunque rapisca un cittadino italiano diventa un legittimo bersaglio militare. Abbiamo d'altronde fra i migliori corpi d'élite militare di pronto intervento che vanno in giro per il mondo ad addestrare gli altri, ma li utilizziamo solo per le parate militari e per montare la guardia durante gli stati generali di Villa Pamphili.
Conte e Di Maio non hanno nemmeno potuto farsi fotografare - né incontrare - gli ostaggi liberati: l'unica foto è quella con Haftar. Mai ci eravamo abbassati così tanto.
«Il governo continua a sostenere con fermezza il processo di stabilizzazione della Libia: è ciò che io e il presidente Giuseppe Conte abbiamo ribadito oggi stesso ad Haftar, durante il nostro colloquio a Bengasi».
Questa è la dichiarazione di Di Maio, che, quando non deve usare i congiuntivi, ha imparato a parlare bene. Da notare i termini "virili": "fermezza" e "ribadito". Poi, il protocollo dell'etichetta istituzionale avrebbe richiesto di parlare di «Conte e io», non il contrario. Ma perdoniamo.
E l'incontro non è avvenuto a Bengasi, ma nel quartiere generale di Haftar, ad Al-Rajma, fuori Bengasi: lo dimostra Rocco Casalino che via chat e sui siti ha fatto (inavvertitamente?) circolare uno "screenshot" con indicata la località, vicino all'aeroporto di Bengasi.
Dopo questo mastodontico "inchino di Stato" al generale Haftar (un virtuale bacio della pantofola) è opportuno che sulla nostra diplomazia ritorni un po' di silenzio.
Alla fin fine questa sceneggiata ci ha distratto per un momento dalla miserevole quotidianità che ci angoscia.
Forse occorre essere loro grati.
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