EXCALIBUR 163 - gennaio 2024
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La tentazione gaullista

<b>Randolfo Pacciardi</b> tra <b>Alcide De Gasperi</b> e <b>Mario Scelba</b> in una seduta di governo
Randolfo Pacciardi tra Alcide De Gasperi e Mario
Scelba
in una seduta di governo
Pacciardi mazziniano integrale ma piuttosto pragmatico nella relazione con le altre forze politiche del Cln, tanto più con gli azionisti (dai quali il Pri avrebbe ricevuto presto rinforzi di qualità, uomini tutti della resistenza: da Ugo La Malfa a Oronzo Reale, da Michele Cifarelli a Bruno Visentini), e Pacciardi deciso nella collaborazione con De Gasperi e la Dc, prima e dopo la stagione costituente: vicepresidente del Consiglio e poi per un lustro intero ministro della difesa, impegnato a defascistizzare le forze armate e a dar corpo, per la parte italiana (e contro certo neutralismo diffuso nel mondo cattolico e anche fra gli stessi repubblicani, oltreché fra i socialcomunisti) al disegno del Patto Atlantico, di qua dalla cortina di ferro degli stati dittatoriali comunisti. Pacciardi europeista teso a prefigurare, con i migliori, l'Europa delle comunità nazionali, gli Stati Uniti continentali, Pacciardi impegnato a pensare anche a una difesa comune europea (la famosa Ced mai decollata per l'ostilità francese).
Maturò crescenti perplessità, Pacciardi, su certo dottrinarismo socialista - lui piuttosto propenso alla creatività del libero mercato (magari nel solco associativo di "capitale e lavoro nelle stesse mani") e contrario al dirigismo economico - quando si affacciò, sostenuto proprio dalla nuova dirigenza del suo partito, da Ugo La Malfa e Oronzo Reale soprattutto, il quadro di centro-sinistra, che doveva essere riformatore secondo le coerenze di una politica di programmazione capace di riassorbire le maggiori diseguaglianze territoriali e settoriali dell'economia e della società italiana.
Così in dialettica concertativa con le organizzazioni datoriali e quelle sindacali rappresentative delle infinite categorie lavorative. Per questo arrivò, egli rieletto deputato per la quarta volta nel 1963, a non votare la fiducia al primo governo Moro. Ciò che significò per lui la sanzione dolorosa della espulsione dal gruppo parlamentare e dal partito.
Fu una causa di sofferenza per tutti: non si erano dimenticati gli altri strappi, tutti di nobili personalità, cavalieri dell'ideale, da Giovanni Conti - che era stato il vice presidente della Costituente e uno dei 75 estensori della Carta Fondamentale della Repubblica - a Ugo Della Seta, pure lui costituente autorevolissimo, a Ferruccio Parri nel '53 (per l'opposizione alla legge maggioritaria).
Dette vita allora, Pacciardi, al suo movimento "Unione Democratica per la Nuova Repubblica", che marcò una sua identità presidenzialista (di stampo gaullista) e fortemente antipartitocratica.
La veemenza polemica con cui aveva già portato nelle sedi ordinarie tali istanze - virtuose entrambe in sé, se è vero che furono presidenzialisti uomini e costituenti del valore di Piero Calamandrei e Leo Valiani e se è vero che la partitocrazia già negli anni '60 fu vista in termini critici dalle minoranze vicine al "Mondo" di Pannunzio e al radicalismo di Villabruna e altre eccellenze liberaldemocratiche - fu forse all'origine della separazione, certo dolorosa per entrambe le parti, che si consumò nel 1963.
E forse l'errore che Pacciardi compì allora fu quello di non dare rigore alla cornice nella quale egli inseriva le sue istanze, e di non selezionare adeguatamente i suoi nuovi "compagni di viaggio", i presidenzialisti e gli antipartitocratici che sostenevano le loro tesi muovendo però da aree ideali e politiche assai lontane dalla democrazia mazziniana e anche, più in generale, dal liberalismo democratico: gente di destra, intimamente reazionaria e perfino filofascista.
Da essi non poteva venire nessun avallo credibile a una politica di rinforzo dell'esecutivo, in miglior equilibrio con il legislativo di frequente impantanato nelle vicende particolari dei partiti e delle loro nomenclature.
Ciò indusse taluno perfino a coinvolgere il nome onorato di Randolfo Pacciardi in ipotesi golpiste assolutamente scriteriate, ben difficilmente riconducibili alla sua storia personale e pubblica. Ma tutto questo segnò da allora - poiché ogni fuoco si spense intorno al 1968, quando l'affaccio di Nuova Repubblica alle elezioni politiche non venne premiato dall'elettorato - l'oscuramento totale della figura di Pacciardi, fattosi pieno e definitivo negli ultimi decenni.
Ormai anziano, ormai ottuagenario, nel 1979 fu riammesso dal Pri nelle proprie file, auspice lo stesso segretario Giovanni Spadolini, subentrato ad Oddo Biasini dopo la morte nel marzo di quell'anno, di Ugo La Malfa, il grande avversario interno di Pacciardi.
Membro di diritto della direzione del Partito Repubblicano Italiano, questi dette il suo generoso contributo di riflessione anche nell'ultima sua stagione di vita. Che fu la stagione che vide la presidenza del Consiglio - assolutamente prestigiosa - affidata a Giovanni Spadolini, la staffetta (invero poco gloriosa tanto più per il debito pubblico) fra Craxi e De Mita, la lotta al terrorismo e un certo riassorbimento della spirale inflattiva a due cifre da tempo impostasi come droga dell'economia. Morì, Pacciardi, nel 1991, e l'orazione funebre la tenne Gustavo Raffi, gran maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani, l'obbedienza liberomuratoria alla quale egli aveva dato la sua adesione da giovanissimo, nel 1919 (alla loggia Ombrone di Grosseto).
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